Emanuele Giordana
L’ultimo incontro della Nato a Vilnius, accompagnato dai reiterati inviti della
diplomazia americana, si è concluso con la solita richiesta: per vincere in
Afghanistan ci vogliono più truppe. Incontri, lettere e dichiarazioni di questo
tenore sono stati accompagnati da una serie di dossier che dicono un po’ tutti
la stessa cosa: la guerra segna il passo e per vincerla servono più soldati.
Solo qualche voce solitaria, come Oxfam International, una delle maggiori
organizzazioni non governative del pianeta, ha cercato di spostare l’attenzione
dall’opzione militare a quella civile. Cercando di spiegare che per vincere in
Afghanistan la soluzione non può essere solo bellica.
A mostrare la corda, come è evidente per chiunque vada a Kabul di questi tempi,
è una ricostruzione che non fa grandi passi avanti. E se la guerra è in stallo,
aumenta la disillusione degli afgani verso la comunità internazionale che dal
2001, quando i talebani furono cacciati, non ha mantenuto le promesse. Certo,
qualcosa è stato fatto. Anche dall’Italia. A Baghlan, un centro nel Nord del
paese, abbiamo ricostruito un ospedale che serve 100mila utenti. Ma a una
ventina di chilometri, nella capitale della provincia, il nosocomio è una
struttura fatiscente: con lunghe code davanti a padiglioni sporchi e mal
equipaggiati. Per un abitante di Baghlan contento, ce ne sono quattro a Pol-i
Khumri che soffrono. E questo spiega perché, nonostante la maggioranza del paese
sia ancora favorevole alla presenza delle truppe Nato/Isaf, cui contribuiamo con
circa 2500 soldati, il consenso diminuisce di anno in anno. A Kabul la luce
viene erogata due sole ore al giorno. L’acqua potabile arriva in una percentuale
minima delle abitazioni. E in periferia è ancora peggio: per cercare l’acqua in
uno dei rari pozzi di campagna, bambini e donne fanno chilometri con le taniche
sulla testa.
In questo scenario bisogna chiedersi se insistere sulla sola opzione militare
sia la ricetta vincente. In una recente intervista a Die Welt, il presidente
Karzai ha detto chiaramente di non credere che servano più soldati stranieri.
Servono competenze e formazione, ha detto. Gli afgani vogliono un loro esercito
e una polizia efficiente. Ci vorrà tempo ma questa sembra loro – e non solo a
Karzai – l’unico modo per vincere i talebani.
L’altro aspetto che langue riguarda il negoziato: una possibile via di
pacificazione che metta da parte le armi e tenti la strada del dialogo.
Possibile? Impossibile? Negata dai veti incrociati di chi crede che con i
terroristi non si negozia? Difficile da dire ma bisogna prendere atto che,
sotterraneamente, questa strada è praticata non solo da Karzai. Così a fondo
che, quando Karzai si è accorto che i britannici stavano negoziando coi talebani
la loro sopravvivenza a Musa Qala, nella provincia meridionale di Helmand dove
hanno la responsabilità militare, tra Kabul e Londra son volate parole grosse.
Agli afgani non piace che altri facciano al posto loro. E in un momento in cui
Karzai sente che anche gli americani stanno preparando la sua successione, una
montata di orgoglio nazionale attraversa il palazzo. Ma anche le misere case
della popolazione.
La storia insegna che agli afgani non piacciono i protettorati. Lo sa bene il
Regno unito. Lo sanno benissimo i russi. Dovremmo capirlo anche noi. Alcuni
giorni fa, a fine gennaio, per la prima volta, un centinaio di organizzazioni
non governative afgane, si sono trovate a convegno. Hanno condannato i
bombardamenti indiscriminati, chiesto nuovi finanziamenti per la ricostruzione
ma soprattutto un nuovo ruolo per la società civile. Ricostruire l’Afghanistan
partendo dagli afgani. Forse non tutti sanno che, per fare un esempio, la sola
agenzia americana per lo sviluppo, ha dato il 50% del suo budget afgano a cinque
grosse società statunitensi che operano nel paese. In Afghanistan lo sanno.
Alla Conferenza di Kabul gli afgani hanno anche fatto proprio, integrandolo, il
documento di Afgana (www.afgana.org), un’agenda di pace proposta dalla società
civile italiana attraverso una piattaforma firmata da decine di organizzazioni,
associazioni, accademici, singoli cittadini che vorrebbero che nel nostro paese
si uscisse dalla polarizzazione “soldati si, soldati no”, portare a casa i
militari o lasciarli semplicemente perché si deve. Un passo avanti importante e
un segnale dal basso. Anche per il nostro parlamento. Per quello in uscita e per
quello che verrà.
La sensazione è che in realtà a queste voci si faccia poca attenzione. E che il
dibattito sull’Afghanistan resti prigioniero di schemi ideologici. Il voto di
rifinanziamanto della missione (non solo afgana ma anche quella in Libano e
negli altri teatri) è per questi giorni e sarebbe vitale che non ricadesse nello
schema polarizzato e semplicistico che si risolve votando si o votando no. Un
dibattito vero sul destino degli afgani, e quindi del nostro ruolo in quel
paese, in Italia è ancora da venire. Abbiamo persino visto in televisione che ci
sono parlamentari che confondono il Pakistan con l’Afghanistan, tanto poco ne
sanno. Questo non rende onore alla politica italiana ma soprattutto non fa gli
interessi degli afgani. Il vero motivo – o almeno così dovrebbe essere – per il
quale i nostri soldati sono partiti verso Oriente.
Questo articolo è uscito su La Nuova Sardegna il 12 febbraio 2008