CARUSOMorti di lavoro, chiedo scusa ma vi spiego
da "Il Manifesto" 11 agosto 2007
Nicola da dieci anni ha ininterrottamente denunciato gli abusi e i saccheggi
perpetrati dalla fondazione religiosa che gestiva l'istituto Papa Giovanni
XIII, un vero e proprio manicomio al quale dopo la legge Basaglia hanno
semplicemente attaccato all'esterno il cartello Centro di Riabilitazione
Psichica. Il milione di euro mensili di denaro pubblico che la fondazione
intascava da Regione e Servizio sanitario nazionale finiva in attici
superlussuosi, moto di grossa cilindrata, gioielli e alberghi a cinque
stelle: la bella vita di monsignor Luberto, a cui tutti i politici locali si
prostravano in occasione di ogni tornata elettorale. Nel frattempo i
lavoratori accumulavano 40 mensilità di arretrati, finendo dritti dritti
nelle mani degli usurai legali - le banche - o illegali. E i malati di mente
(o meglio, i malati di niente)? Accartocciati e abbandonati su materassi
luridi, in stanze con porte e vetri sfasciati da anni, in corridoi nei quali
la puzza di urina a volte è asfissiante. Mesi e mesi di denunce, di
ispezioni e interrogazioni parlamentari, ma alla fine lo scandalo vien fuori
e per mons. Luberto e i suoi soci in affari scattano le manette. Ora però
sia i 320 malati di niente che i lavoratori rischiano di finire in mezzo ad
una strada. Sono immerso in questo disastro umano quando squilla il
cellulare, è Franco, un vecchio compagno di Napoli che si vuole sfogare:
hanno ucciso Angelo, è morto volando da un'impalcatura, maledetti padroni,
per risparmiare nemmeno le braghe gli hanno voluto dare, ma che cavolo fate
lì in parlamento? Cerco di rassicurarlo, solo pochi giorni fa abbiamo
approvato in via definitiva la legge sulla sicurezza sul lavoro di cui il
compagno Augusto Rocchi è stato relatore. Ma non vuol sentire chiacchiere,
«di chiacchiere ne abbiamo sentite tante in questi anni, ora ci vogliono i
fatti». Ma più fatti di così? Non so proprio cosa fare, e la rabbia si
infittisce, con le orecchie protese agli sfoghi del buon Franco e gli occhi
fissi sui disastri del Papa Giovanni. E in mezzo a questi disastri mi vien
fuori una parola, secca e devastante: assassini, diretta ai responsabili di
questo e quel disastro, ma null'altro che uno sfogo incontrollato.
Ma chi sono gli assassini? Mons.Luberto? non proprio. Gli imprenditori senza
scrupoli che per ingrossare i loro profitti tagliano su salari, condizioni e
sicurezza sul lavoro? Forse. Di certo non c'entrano Tiziano Treu e Marco
Biagi, non foss'altro per il semplice e incontestabile dato che sia il
cosiddetto pacchetto Treu che la legge 30 non esistono certo per
responsabilità di chi ha tecnicamente contribuito a scriverle quanto
piuttosto per la volontà di un'intera classe politica e degli interessi
forti che la sorreggono. Allo sfogo incontrollato segue il delirio, il
delirio di una criminalizzazione che assimila il diritto di critica
all'uccisione di Marco Biagi. Non voglio che persone che hanno subito
tragici dolori in qualche modo possano sentirsi offese dalle mie parole,
ancorché fraintese. Se ciò fosse accaduto non c'è bisogno di qualcuno che
formuli scuse al posto mio, ma lo posso fare e lo faccio anche da solo.
Resta però il fatto che di fronte all'impressionante numero di morti sul
lavoro è necessario individuare delle responsabilità politiche, altrimenti
ci prendiamo in giro e possiamo anche dire che l'infinita strage di morti
bianche è solo frutto del caso o della sfortuna che casualmente si accanisce
contro la classe lavoratrice. Non vorrei che tanto scandalo da parte dei
professionisti della politica serva anche ad autoassolversi dalla
responsabilità di aver acceso il semaforo verde a politiche liberiste i cui
effetti sono disastrosi e talvolta mortali e che quindi il facile e sempre
più diffuso «tiro al caruso» sia legato alla necessità di occultare
l'aspetto di fondo, drammatico e inquietante, della vicenda: che
l'incredibile e tragico bilancio dei morti sul lavoro non è solo una
questione di mancati controlli, ma anche conseguenza di queste leggi che
rendono il lavoro sempre più precario e pericoloso, norme che producono
rapporti di lavoro deregolamentati e non garantiti, annullando in tal modo
la possibilità di resistere, di denunciare, di rifiutarsi e sottrarsi a
condizioni lavorative insalubri o insicure.
Piero lavora 8 ore al giorno all'alfa di Pomigliano a pulire i filtri, entra
in fabbrica con la faccia bianca ed esce a fine turno come un bingo-bongo,
per dirla alla Calderoli: ma il viso a casa può lavarselo, i polmoni un po'
meno. Non vuol morire a 50 anni come i suoi colleghi che l'hanno preceduto
in quel lavoro di merda, per questo ha chiesto una mascherina e
qualcos'altro, per lui e i suoi compagni di lavoro. Dopo due settimane, allo
scadere del contratto, guarda caso non gliel'hanno rinnovato. Ciò detto, mi
sembra quasi banale ribadire una cosa che non è patrimonio o elaborazione
personale ma frutto di una convinzione diffusa nei partiti (di sinistra),
nei movimenti, nella società civile, nei, si diceva una volta, sinceri
democratici: che la precarietà e la flessibilità nei rapporti di lavoro sono
giunti a livelli tali da trasformare il lavoratore in un moderno schiavo.
Parlo delle misure introdotte con il famoso pacchetto Treu, (che introdusse
le agenzie il lavoro interinale) e giunte al loro apice con la cosiddetta
legge Biagi (che ha introdotto il lavoro a chiamata). C'è un rapporto tra
questa progressiva riduzione del sistema dei diritti e delle garanzie del
lavoro e l'impressionante numero di incidenti (circa un milione) e di morti
(circa 1.300 l'anno) che avvengono sui luoghi di lavoro? Dispone un
lavoratore atipico, a tempo, a chiamata, a partita iva, sommerso, in
concreto degli stessi diritti (e dello stesso salario) di un lavoratore
contrattualizzato e a tempo indeterminato?
E' evidente che se un lavoratore non difende se stesso perché vittima di
precarietà e ricatti non saranno sufficienti i pur necessari ispettori del
lavoro. I lavoratori devono, per poter difendere i propri diritti sindacali,
avere la possibilità di non dovere abbassare la testa di fronte al padrone.
Abrogare questa legislazione sulla precarietà (a cominciare dalla legge
Biagi) e ridare dignità e diritti alle lavoratrici e ai lavoratori precari è
uno dei punti del programma di centrosinistra (certo con molti, troppi,
tentennamenti), e, di certo, una pietra angolare dell'azione politica del
Prc. Lavorare perché ciò avvenga è un mio preciso dovere etico, prima ancora
che politico.
Molti esponenti politici si indignano perché sostengono che volere abrogare
la legge Biagi è come dare ragione a chi l'ha ucciso. Questi politici - che
non hanno argomenti per giustificare come si possa vivere con 700 euro al
mese, con contratti a progetto - sono gli stessi che a Biagi non hanno
concesso la scorta e che una volta morto lo hanno ampiamente
strumentalizzato come «scudo umano» per difendere la loro riforma del
mercato del lavoro da qualsiasi genere di critica e opposizione. Mi dicono
che per far politica ci vuole anche una buona dosa di ipocrisia e questa
purtroppo è una dote che mi manca, la stessa dote che forse in qualcun altro
abbonda. L'allora ministro degli interni Claudio Scajola, che pubblicamente
ne tesseva le lodi, in una conversazione privata lo definì «un rompi...».
Sull'onda delle proteste si dimise, per poi tornare, nell'indifferenza
generale, nuovamente ministro, ma di una altro dicastero.
Ma ciò che mi preoccupa non è l'ipocrisia del centrodestra, ma la paura del
centrosinistra nell'affrontare il tema delle morti bianche e della sicurezza
sul lavoro. La sicurezza non può prescindere dalla forma di contratto che
hai, dalla dignità che il rapporto di lavoro ti consente di rivendicare. Per
questo, a sinistra innanzitutto, non basta commuoversi per i morti sul
lavoro. Bisognerebbe forse semplicemente ricordarsi che l'uomo non è una
merce e che il mondo non può essere ridotto a mercato. E forse finalmente
bisognerebbe cominciare ad abrogare la legge 30, proprio per rispetto ai
morti che ci sono stati, proprio perché di morti non ne vogliamo più.