Da la Repubblica del 2 gennaio 2008
Che cosa resta della nostra Costituzione
Violazioni e tentativi di “superamento”
di principi costituzionali, oggi più validi che mai
di
Stefano Rodotà
Stanno nascendo "costituzioni parallele" che, direttamente o
indirettamente, mirano a mettere in discussione, o a cancellare del tutto, la
prima parte della Costituzione italiana quella dei principi, delle libertà e dei
diritti – varata esattamente 60 anni fa. Il più noto di questi tentativi è
quello che le gerarchie cattoliche perseguono ormai da tempo, affermando la
superiorità e la non negoziabilità dei propri valori e denunciando il
relativismo delle carte dei diritti, a cominciare dalla Dichiarazione universale
dell’Onu del 1948, considerate frutto di mediocri aggiustamenti politici. Ma non
deve essere sottovalutato un prodotto di quest’ultima stagione, l’annuncio di
"manifesti dei valori" ai quali le nuove forze politiche vogliono affidare una
loro "ben rotonda identità". Il mutamento di terminologia è rivelatore. Non più
"programmi" politici, ma manifesti, un tipo di documento che storicamente ha
valore oppositivo, addirittura di denuncia dell’ordine esistente. E oggi proprio
l’ordine costituzionale finisce con l’essere messo in discussione.
Viene abbandonata la politica costituzionale, già indebolita, ma che pur nei
contrasti aveva accompagnato la vita della Repubblica, contraddistinto battaglie
come quella dell’"attuazione costituzionale", segnato stagioni come quella del
"disgelo costituzionale". Al suo posto si sta insediando un dissennato
Kulturkampf, una battaglia tra valori che sembra muovere dalla impossibilità di
trovare comuni punti di riferimento. L’identità costituzionale repubblicana è
cancellata, al suo posto scorgiamo la pretesa di imporre una verità o la ricerca
affannosa di compromessi mediocri.
Nel linguaggio di troppi politici i riferimenti alle encicliche papali hanno
sostituito quelli agli articoli della Costituzione. Nelle parole di altri si
rispecchiano una regressione culturale, una corsa alle risposte congiunturali,
più che una matura riflessione sui principi che devono guidare l’azione
politica. Ci si allontana dal passato senza la lungimiranza di chi sa cogliere
il futuro.
Questo è forse l’effetto di un inesorabile invecchiamento della Costituzione
della quale, a sessant’anni dalla nascita, saremmo chiamati non a celebrare la
vitalità, ma a registrare la decrepitezza? L’intoccabilità della prima parte
deve cedere ai colpi inflitti dal mutare dei tempi?
Ribadito che siamo di fronte a un tema distinto dalla buona "manutenzione" della
seconda parte, che disciplina i meccanismi istituzionali, proviamo a saggiare la
tenuta dei principi costituzionali considerando proprio questioni recenti, per
vedere se non sia proprio lì la bussola democratica, liberamente e concordemente
definita, alla quale tutti devono riferirsi. Partiamo dall’attualità più dura,
dalle morti sul lavoro, delle quali la tragedia della Thyssen Krupp è divenuta
l’emblema. L’articolo 41 della Costituzione è chiarissimo: l’iniziativa
economica privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana». Questa sarebbe una incrostazione da eliminare perché in contrasto con la
pura logica di mercato? Qualcuno lo ha proposto, ma spero che la violenza della
realtà lo abbia fatto rinsavire. Oggi è proprio da lì che bisogna ripartire, da
una sicurezza inscindibile dal rispetto della libertà e della dignità, dalla
considerazione del salario non solo come ciò che consente di acquistare un
lavoro sempre più ridotto a merce, ma come il mezzo che deve garantire al
lavoratore ed alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa» (articolo 36).
Questione ineludibile di fronte ad un processo produttivo che, grazie anche alle
tecnologie, si impadronisce sempre più profondamente della persona stessa del
lavoratore. La trama costituzionale ci parla così di una «riserva di umanità»
che non può essere scalfita, ci proietta ben al di là della condizione del
lavoratore, mette in discussione un riduzionismo economicistico che vorrebbe
l’intero mondo sempre più simile alla New York descritta da Melville all’inizio
di Moby Dick, che «il commercio cinge con la sua risacca».
Altrettanto irrispettosa della vita è la decisione del Comune di Milano di non
ammettere nelle scuole materne comunali i figli di immigrati senza permesso di
soggiorno. È davvero violenza estrema quella che esclude, che nega tutto ciò che
è stato costruito in tema di eguaglianza e cittadinanza e, in un tempo di
ripetute genuflessioni, ignora la stessa carità cristiana. Di nuovo la trama
costituzionale può e deve guidarci, non solo con il divieto delle
discriminazioni, ma con l’indicazione che vuole la Repubblica e le sue
istituzioni obbligate a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale
che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana» (così l’articolo 3). E cittadinanza ormai è
formula che non rinvia soltanto all’appartenenza ad uno Stato. Individua un
nucleo di diritti fondamentali che non può essere limitato, che appartiene a
ciascuno in quanto persona, che dev’essere garantito quale che sia il luogo in
cui ci si trova a vivere. Hanno mai letto, al Comune di Milano, la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea? Sanno che in essa vi è un esplicito
riconoscimento dei diritti dei bambini? Trascrivo i punti essenziali
dell’articolo 24: «I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure
necessarie per il loro benessere… In tutti gli atti relativi ai bambini, siano
essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse
superiore del bambino deve essere considerato preminente». Di tutto questo, e
non solo a Milano, non v’è consapevolezza, segno d’una sorta di pericolosa "decostituzionalizzazione"
che si è abbattuta sul nostro sistema politico-istituzionale.
Ma seguire le indicazioni della Costituzione rimane un dovere. Certo, serve una
cultura adeguata, perduta in questi anni e che ora sta recuperando una
magistratura colta e consapevole, che affronta le questioni difficili del
nascere, vivere e morire proprio partendo dai principi costituzionali,
ricostruendo rigorosamente il quadro in cui si collocano diritti e libertà delle
persone, risolvendo casi specifici come quelli riguardanti l’interruzione dei
trattamenti per chi si trovi in stato vegetativo permanente, il rifiuto di cure,
la diagnosi preimpianto. Ma proprio questo serissimo lavoro di approfondimento
sta rivelando la distanza tra cultura costituzionale e cultura politica. Sembra
quasi che, prodighi di dichiarazioni, troppi esponenti politici non trovino più
il tempo per leggere le sentenze e le ordinanze che commentano, o non abbiano
più gli strumenti necessari per analisi adeguate. Fioccano le invettive e le
minacce: «invasione delle competenze del legislatore», «ricorreremo alla Corte
costituzionale». Ora, se questi frettolosi commentatori conoscessero davvero la
Corte, si renderebbero conto che le deprecate decisioni della magistratura
seguono proprio una sua indicazione generale, che vuole l’interpretazione della
legge "costituzionalmente orientata": Nel caso della diagnosi preimpianto, anzi,
sono stati proprio i giudici a bloccare una pericolosa invasione da parte del
Governo delle competenze del legislatore, che non aveva affatto previsto il
divieto di quel tipo di diagnosi, poi introdotto illegittimamente da un semplice
decreto ministeriale.
La stessa linea interpretativa dovrebbe essere seguita nella controversa materia
delle unioni di fatto, al cui riconoscimento non può essere opposta una lettura
angusta dell’articolo 29, già superata negli anni 70 con la riforma del diritto
di famiglia. Parlando di «società naturale fondata sul matrimonio», la
Costituzione non ha voluto escludere ogni considerazione di altre forme di
convivenza, tanto che l’articolo 30 parla esplicitamente di doveri verso i figli
nati "fuori del matrimonio"; e l’articolo 2, per iniziativa cattolica,
attribuisce particolare rilevanza giuridica alle "formazioni sociali", di cui le
unioni di fatto sono sicuramente parte. Linea interpretativa, peraltro,
confermata dall’articolo 9 Carta dei diritti fondamentali che mette sullo stesso
piano famiglia fondata sul matrimonio e altre forme di convivenza, per le quali
è caduto il riferimento alla diversità di sesso. Che dire, poi, delle resistenze
contro una più netta condanna delle discriminazioni basate sull’orientamento
sessuale, che costituisce attuazione degli impegni assunti con i trattati
europei e la Carta dei diritti? Dopo esserci allontanati dalla nostra
Costituzione, fuggiremo anche dall’Europa e ci sottrarremo ai nostri obblighi
internazionali?
Nella Costituzione vi sono molte potenzialità da sviluppare, come già è accaduto
con il diritto al paesaggio e la tutela della salute. Quando si dice che la
proprietà deve essere "accessibile a tutti", si leggono parole che colgono le
nuove questioni poste dall’utilizzazione dell’enorme patrimonio di conoscenze
esistente in Internet. E la rilettura delle libertà di circolazione e
comunicazione può dare risposte ai problemi posti dalle tecnologie della
sorveglianza e dalle gigantesche raccolte di dati telefonici. Vi è, dunque, una
"riscoperta" obbligata di una Costituzione tutt’altro che invecchiata e
imbalsamata, che regge benissimo il confronto con l’Europa, che rimane l’unica
base democratica per una discussione sui valori sottratta alle contingenze ed
alle ideologie. Questo richiede l’apertura di una nuova fase di "attuazione"
costituzionale". Chi sarà capace di farlo?