Il malato è un assassino: condannato il suo medico
Schizofrenico accoltella assistente,
quattro mesi di pena allo psichiatra
Ma è giusto che per il delitto compiuto da un malato
schizofrenico debba pagare il suo medico? Il tribunale di Bologna ha deciso
che sì, è così. La Cassazione l’ha appena ribadito: è giusto. E’ la prima
sentenza del genere in Italia. Lo psichiatra Euro Pozzi è stato condannato: 4
mesi. Omicidio colposo. Il suo paziente, Giovanni Musiani, aveva accoltellato
l’educatore professionale Ateo Cardelli, affondando per due volte nel suo
cuore una lama di 35 centimetri.
Ora Pozzi dice che «di fatto questa è una sentenza contro la legge 180.
Adesso, per gli psichiatri, diventa preferibile non esporsi a inutili rischi
perseguibili penalmente». L’avvocato Massimo Iasonni, che ha rappresentato in
aula la madre della vittima, la signora Ivana Bendini, ribatte che «la verità
è un’altra, che la legge Basaglia è sacrosanta, ma che i medici devono
rispettare fino in fondo le linee guida internazionali di assistenza dei
pazienti schizofrenici: se riducono un trattamento medico devono controllarne
l’effetto sul paziente. Non possono abbandonarlo, come se lo avessero già
guarito». Detto così, sembra semplice. Da una parte le buone intenzioni,
dall’altra gli obblighi, anche morali; da una parte gli ideali, dall’altra la
coscienza. Ma chi ha davvero ragione, alla fine? Sino a dove arriva la legge,
e fino a dove arriva la responsabilità dell’uomo?
Musiani è un malato schizofrenico paranoide già ricoverato per quattro anni,
dal ’70 al ’74, negli ospedali psichiatrici giudiziari di Reggio Emilia e di
Aversa. Alla fine degli Anni 90 finisce nella Comunità Residenziale
Psichiatrica Albatros (Usl di Imola). Lo segue il dottor Euro Pozzi, che prima
decide di dimezzare e poi di eliminare il medicamento Depot, una cura che
abbassa fra le altre cose il livello di aggressività, ma che è mal sopportata
da tutti i malati, come spiega bene Iasonni, «perché li indebolisce, e li fa
sentire anche fiacchi e impotenti». Molti medici decidono di eliminarla per il
bene dei loro pazienti. Il problema è che «a questo punto, nel momento
delicatissimo in cui cambi terapia, metti a rischio pure i già fragili
equilibri psichici del malato, e quindi un medico ha l’obbligo di andare a
vedere come questo mutamento incida sulla personalità del soggetto». Perché,
insiste Iasonni, «il paziente può andare in scompenso, e lo vedi perché si
incupisce, diventa taciturno, rifiuta il cibo, si fa ispido e scostante, fino
al punto di manifestare delle fobie: ha paura di essere ammazzato, ha paura di
qualsiasi cosa, ha paura del veleno. In questo caso, ci vuole il trattamento
sanitario obbligatorio».
E’ questo che è successo a Musiani, nella comunità di Imola? Il 24 aprile del
2000 accoltellò Ateo Cardelli. E il magistrato mandò sul banco degli imputati
anche il suo medico. Ma questa sentenza, giunta dopo 7 anni di processo,
secondo Euro Pozzi, «ha le sue radici nello stigma che tuttora accompagna la
malattia mentale: la pericolosità del malato di mente. E’ una conferma per
tutti gli psichiatri della necessità di ricorrere sempre più alla psichiatria
difensiva, una pratica già ampiamente in uso in medicina che ha, nel caso
della psichiatria, conseguenze ancora più problematiche, non solo per i
malati, ma pure per la collettività. Per i pazienti è prevedibile l’abuso o
l’uso esclusivo del trattamento farmacologico, il ricorso a ricoveri
prolungati anche se non necessari, e la morte di ogni percorso riabilitativo.
La riabilitazione è la via della speranza nel paziente psichiatrico, un
processo complesso e articolato che comprende le terapie farmacologiche, il
coinvolgimento di varie professionalità e la crescente responsabilizzazione e
autonomizzazione del paziente. Tutto questo rischia di essere spazzato via
dalla sentenza. Uccide questa speranza. Chi avrà il coraggio di provarci
ancora?». Ma dov’è il confine fra la libertà di cura, la speranza di una cura
migliore, e la responsabilità personale di un medico - come in questo caso -,
ma anche di un parente, persino di un magistrato? La colpa di quel dottore non
equivale a quella di un poliziotto o di un giudice che lascia libero un
delinquente interpretando una norma o un divieto? E può essere punita questa
colpa, o non è sbagliato farlo? Non apre a scenari inquietanti (per
un’automobilista killer della strada è responsabile la scuola guida?) o a
obblighi impossibili?
In questo caso, nella vicenda di Imola, la vittima, poco prima di essere
uccisa, aveva scritto una lunga lettera a Piero Marrazzo, all’epoca conduttore
della trasmissione tv «Mi manda Rai Tre». Si lamentava dei turni massacranti,
di essere sottopagato, ma soprattutto di vivere in condizioni di estremo
disagio e pericolosità, «trovando rifugio in questa struttura, come in altre
case famiglia, ex degenti psichiatrici e portatori di gravi handicap mentali».
Se era una denuncia, non poteva servire a molto. Eppure, a rileggere tutto,
alla fine forse ha ragione Iasonni, che c’è qualcosa in questa storia «che
vale la pena di tenere, contro la retorica stracciona, la superficialità dei
gesti e delle scelte. Non basta avere ragione. Lo devi dimostrare. Non basta
capire che una cosa è giusta. La devi fare». Semplicemente, come in ogni cosa
della vita, bisogna arrivare fino in fondo.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200711articoli/27668girata.asp
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Commento di Giampietro operatore sociale