La voce arriva stanca ma distinta dal fondo della
cella. «L'Italia mi ha abbandonato. Mi lasciano qui, in carcere a marcire,
solo perché sono musulmano». Abou ElKassim Britel, detto Kassim, 40 anni di
cui 18 trascorsi in Italia, cittadino italiano dal 1999, ha un tono pacato,
nonostante la drammaticità della sua storia. Una storia di abusi e torture,
degna del film di Alan Parker Fuga di Mezzanotte, cominciata nel 2002, in
Pakistan, quando è stato catturato dai servizi di sicurezza di Islamabad,
torturato, interrogato dagli americani, poi trasferito in Marocco (suo paese
d'origine), ancora torturato e detenuto in un luogo segreto, liberato e
quindi nuovamente incarcerato nel 2003 e condannato a nove anni di carcere
per «organizzazione sovversiva e riunioni non autorizzate».
Lo raggiungiamo al telefono nel carcere di Ain Bourja, a Casablanca, dove è
stato recentemente trasferito dopo aver trascorso tre anni nella dura
prigione di Salé. «Un posto allucinante, dove stavamo in otto in celle di
cinque metri per tre, ci era consentita mezz'ora d'aria al giorno, esclusi
il sabato e la domenica, il cibo era pessimo e potevi anche non essere
visitato da un dottore per un mese e mezzo».
Lo sciopero della fame
Kassim paga lo scotto di essere un musulmano ai tempi della guerra
globale al terrorismo. Condannato per reati associativi a seguito di un
processo farsa durato mezza giornata, è stato dimenticato dal nostro
ministero degli esteri, nonostante la strenua battaglia condotta dalla
moglie Anna Lucia Pighizzini (convertitasi all'Islam con il nome di Khadija).
«Ogni tanto mi viene a far visita il console. Mi dice che si stanno muovendo
per farmi avere la grazia, ma io non mi fido più». Così Kassim ha cominciato
da un mese uno sciopero della fame ed è fermamente intenzionato ad andare
avanti. Ritiene l'Italia direttamente coinvolta nel suo caso, non solo per
il disinteresse mostrato dal governo di Roma, ma per quella che definisce
«una partecipazione attiva dei servizi di intelligence». «Quando mi hanno
preso in Pakistan, nel 2002, ho detto subito sia ai servizi pakistani che
agli americani che ero un cittadino italiano e che volevo parlare con la mia
rappresentanza consolare. Loro mi hanno risposto che l'ambasciatore di
Islamabad aveva dichiarato loro che non voleva saper niente di me perché ero
un terrorista». Seguono sessioni infinite di interrogatori e abusi in vari
luoghi del Pakistan. «Mi hanno torturato in modo bestiale. Gli americani mi
hanno detto: "Non ti crediamo. O parli o ti ammazziamo". Poi mi hanno detto
che sarebbero andati a prendere mia moglie e mia madre e avrebbero fatto
loro cose che non sarei riuscito neanche a immaginarmi».
Dopo mesi di questo trattamento, gli uomini di Washington decidono di
trasferirlo. Lo caricano quindi su un aereo, incappucciato, legato e steso
per terra. «Viaggiavo con un altro cittadino arabo, probabilmente siriano o
giordano. Lui era ferito. Non so che fine abbia fatto». Kassim non ha la
minima idea di dove lo stiano portando. Solo all'arrivo, intendendo parlare
l'arabo marocchino, capisce che è stato trasferito nel suo paese d'origine.
Chiuso in un bagno, viene fotografato e poi trasportato - sempre bendato -
nel famigerato centro di detenzione di Temara. È questo il centro nevralgico
dell'esternalizzazione in Marocco della guerra al terrorismo. È qui che,
secondo diverse associazioni dei diritti umani marocchine, sono state
condotte negli anni le vittime di varie extraordinary rendition, sottoposte
poi a tecniche di interrogatorio poco ortodosse. Britel conferma: «Mi hanno
tenuto lì otto mesi. I marocchini mi interrogavano. Mi torturavano. Volevano
che confessassi presunti legami con gruppi terroristici. Nel cortile, ogni
tanto sentivo parlare in inglese con accento americano, anche se non so se
durante gli interrogatori gli americani erano presenti. Ero sempre bendato».
Il 16 maggio 2003
Tutta l'operazione - la cattura in Pakistan, il trasferimento in
Marocco, gli interrogatori a Temara - sono fatti, secondo Kassim, con la
consapevolezza e il consenso delle autorità italiane. «Esisteva una
collaborazione strutturale tra i servizi italiani e marocchini: quando ero
in quel centro, mi hanno fatto ascoltare una registrazione di una telefonata
che avevo fatto dal Pakistan a mio fratello a Bergamo. Solo i servizi
italiani potevano aver fornito loro quella registrazione».
Dopo questi mesi d'inferno, l'uomo viene rilasciato. Si reca all'ambasciata
di Rabat chiedendo un passaporto per tornare a casa. Gli viene detto che ai
non residenti in Marocco potevano solo dare un lascia-passare per rientrare
in Italia. Visto il modo «inusuale» con cui era entrato nel regno cherifiano,
chiede assistenza all'ambasciata per uscire dal paese. Alla sede consolare
non ascoltano le sue richieste e gli dicono di non preoccuparsi.
Si reca quindi da solo alla frontiera terrestre di Melilla. Qui i gendarmi
marocchini gli chiedono come ha fatto a entrare in Marocco, dal momento che
il suo ingresso non risulta dai terminali. Lui racconta la sua storia. I
poliziotti si allarmano. Gli dicono di aspettare e lo chiudono in una
stanza. È il 16 maggio del 2003. Poche ore dopo a Casablanca, un gruppo di
attentatori suicidi si farà esplodere, provocando 42 morti. Il regno piomba
nel panico più totale. La reazione è violentissima: vengono effettuate
retate e arresti nei quartieri popolari di Casablanca. Migliaia di islamisti
sono fermati e rinchiusi in prigione. Ogni sospetto viene gettato in
carcere. In questo clima, Britel è arrestato di nuovo. Viene portato per la
seconda volta nel centro di Temara, dove trascorre quattro mesi. Poi è
trasferito in carcere a Salé. Il 3 ottobre del 2003, è sottoposto a un
processo farsa durato appena un giorno, al termine del quale viene
condannato a quindici anni (ridotti poi a nove in appello) per «associazione
sovversiva e riunioni non autorizzate». «Ma io non vivo in Marocco dal 1989.
Dove mai avrei tenuto queste riunioni non autorizzate?», chiede al telefono.
Gli elementi di indagine sembrano forniti dalle autorità italiane, che nel
giugno 2001 avevano aperto un'indagine su Kassim e la moglie, a causa di una
«segnalazione» arrivata alla Digos di Bergamo per presunte attività di
fiancheggiamento a gruppi terroristici. Un'indagine chiusa senza rinvio a
giudizio nel settembre 2006, perché non era emersa alcuna prova a suffragare
l'accusa. Ma intanto, in base a quelle stesse carte che hanno spinto il
giudice italiano ad archiviare il caso, Kassim è stato condannato in Marocco
a nove anni.
In tutta questa storia, le autorità italiane mantengono un silenzio
imbarazzante. Non una protesta ufficiale con i pakistani e gli americani per
il sequestro di un cittadino italiano in Pakistan e il suo trasferimento
illegale in Marocco. Non una pressione su Rabat per avere chiarimenti sulle
carte processuali e sulle prove che hanno condotto alla condanna di Britel.
Nessuna richiesta ufficiale di liberazione, come invece hanno fatto i
francesi e i britannici in casi analoghi sia in Marocco che nel centro di
detenzione Usa di Guantanamo.
La domanda di grazia
I servizi consolari ripetono che «l'unica strada è una domanda di
grazia». Ma Kassim è scettico. «La grazia si dà a chi ha commesso un reato e
lo ha ammesso. Io sono innocente. E poi conosco il Marocco: so che se il
ministero degli esteri italiano facesse le debite pressioni, mi
libererebbero».
Ma queste pressioni non pare siano state fatte, almeno per il momento.
Intanto il re Mohammed VI, dopo aver ammesso nel 2005 in un'intervista a El
Pais, che «il suo paese aveva commesso abusi dopo il 16 maggio 2003», ha
bloccato ogni provvedimento di grazia nei confronti di islamisti dal marzo
2007, quando nuovi attentati hanno scosso il reame.
Così, schiacciato tra l'incudine della guerra al terrorismo globale e il
martello della paranoia anti-islamista marocchina del post-2003, Britel
rimane chiuso in cella, in attesa di una soluzione che non arriva, nel
disinteresse più totale delle autorità del paese di cui è almeno formalmente
cittadino.