DAL QUOTIDIANO "AVVENIRE" del 26 marzo 2008
Anna: una morte che ci giudica tutti
Il direttore risponde
La storia di Anna è una di quella storie minime e tragiche di
cui l’informazione tace, più per ignoranza che per scelta. Esiti dolorosi di
vite che la sorte ha lasciato ai margini del consorzio sociale, e che stentano a
guadagnare la «ribalta» d’una breve in cronaca. Neppure noi ce la sentiamo di
additare responsabilità e di chiamare in correo istituzioni che comunque non si
erano dimostrate del tutto sorde o insensibili al bisogno di quella donna. Probabilmente Anna non ce l’ha fatta a
reggere, in fondo da sola, il fardello di una disabilità che innalza intorno al
malato come una sorta di cortina, lasciando fuori il mondo. Forse, Anna aveva
bisogno di qualcuno che condividesse, con lei quest’enorme peso, per di più
aumentato dalla cronicizzata difficoltà economica. La sua morte è una sconfitta
per lei, e soprattutto per noi, per tutti.
Ma anche quest’amara considerazione si riduce a fatalistica formula
autoassolutoria se non stimola una corresponsabilità nuova, se non innesca una
lettura della «diversità» psichica capace di andare oltre il mero dato
assistenziale, oltre il servizio minimo dovuto dal sistema sanitario nazionale
alla persona «disagiata».
Giustamente, lei invoca da Asl e Comuni un approccio multidisciplinare (ovvero
professionalmente specializzato) ma anche personalizzato, ovvero «più umano»,
capace cioè di avere a cuore «quella» persona e non un generico fruitore di
prestazioni medicoassistenziali.
Ignoro le ragioni che hanno indotto
l’assessorato a negare ad Anna, dopo un anno di buoni risultati, il supporto di
un assistente sociale: non mi stupirebbe, però, l’apprendere che a tale
decisione sia in qualche modo connessa al taglio dei budget imposto agli Enti
locali. La scarsità di mezzi, unita a evidenti limiti culturali nella concezione
dell’assistenza, rischiano di perpetuare la logica della «ghettizzazione»: non è
di questo che c’è bisogno in una società sempre più escludente, dove aumentano
le solitudini e le patologie esistenziali.
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Caro direttore,
a volte
succede, per ragioni di opportunità politica o giornalistica, che non tutti i
suicidi vengano raccontati. Le vorrei perciò scrivere di Anna, 72 anni,
sordomuta, che sabato scorso, vigilia di Pasqua, ha deciso di togliersi la vita
buttandosi dal balcone della sua camera, al secondo piano di una casa di riposo
comunale. Da qualche tempo Anna era particolarmente depressa. La sua storia
passata, che tentava di raccontare pur con le sue difficoltà di comunicazione,
era caratterizzata da sfratti, emarginazione e aiuti «a singhiozzo» dalle
istituzioni. L’ultimo aiuto di qualche anno fa, quello offerto dall’assessorato
alle Politiche Sociali, è stato di ospitarla in quella residenza per anziani e
di affiancarla saltuariamente da un’assistente sociale interinale, esperta del
linguaggio dei segni. Un servizio utile, per quanto precario, che ha dato ad
Anna molto giovamento. Purtroppo quel sostegno si è interrotto da circa un anno.
L’assessorato non ha forse ritenuto opportuno garantire la continuità del
servizio attraverso la stipula di un altro contratto. Non è mia intenzione
addossare alcuna responsabilità di questo evento triste, forse ineluttabile.
Dico solo che quando in una casa di riposo per anziani vengono ammesse, come
sta accadendo, persone particolarmente svantaggiate provenienti dalla Caritas,
dalla strada, dai campi rom o da istituti speciali, si compie un’operazione di
«ghettizzazione» dei vari tipi di disagio in un unico calderone. Si rinuncia
cioè alla programmazione di soluzioni diversificate e personalizzate, in altri
termini, più umane. Sarebbe altrettanto necessario nelle comunità residenziali a
media e alta densità abitativa far funzionare bene le équipe multidisciplinari
tra Asl e Comuni e impiegare stabilmente qualifiche specialistiche adeguate
(assistenti sociali, educatori, geriatri, terapisti) rafforzando concretamente
la difficile integrazione tra servizi sociali e servizi sanitari. Ci sarebbe
forse bisogno di politici locali un po’ più competenti e meno «distratti». E
invece di affidare ogni genere di servizi pubblici ai privati con appalti
spezzatino, occorrerebbe il buon senso di valutare anche l’opportunità di
internalizzare alcuni servizi importanti e delicati, interpretando così in
maniera più coerente l’art. 22 della legge sull’Ordinamento delle Autonomie
locali. Lettera
firmata