Quattro bambini di «scarto»
Marco Revelli
Le prime notizie d'agenzia non ne riportavano neppure i nomi.
Come senza nome sono le decine di morti del Canale di Sicilia o del Canale
d'Otranto: corpi di possibili intrusi. La statistica anonima degli ultimi,
delle «vite di scarto». Poi qualche dato anagrafico è filtrato: quattro
bambini Rom, tra i quattro e i dieci anni. Eva, Danchiu, Lenuca e Dengi.
Sono bruciati vivi nella baracca in cui vivevano sotto un cavalcavia: uno
dei tanti luoghi degradati che caratterizzano la nostra «urbanistica del
disprezzo», terre di nessuno vicino a una discarica, a uno scolo fognario, a
uno scarico industriale, là dove la nostra ostilità li spinge e li
ammucchia, lontano dalle nostre vite decorose, fuori dalla vista della
«gente per bene». Sono le vittime, atrocemente innocenti, di quella che è
apparsa fin da subito come una tragedia sconvolgente. E tuttavia il
linguaggio giornalistico stenta a trovare i toni della costernazione
genericamente umana che la circostanza dovrebbe suggerire. Resta
irrimediabilmente sospettoso. Insinua allusioni a una presunta «fuga dei
genitori». Enfatizza le parole del magistrato secondo cui «si configura in
ogni caso una serie di reati di una certa gravità».
Si parla di «colpevole disattenzione». Di un «uso improprio dei materiali»
(le candele usate per illuminare la baracca, priva di energia elettrica,
come di acqua corrente, di servizi igienici, di tutto...). Perché quando si
tratta di zingari, è difficile sottrarsi al pregiudizio, o anche solo
all'abitudine di farne oggetto di cronaca esclusivamente nera, dove la
carezza a un bambino diventa un tentativo di rapimento, e l'assenza di ogni
più elementare genere di comfort il segno di una colpa.
Eva, Danchiu, Lenuca e Dengi sono morti perché non hanno trovato in questo
grande paese di 301.000 km² un solo posto civile in cui posarsi e abitare.
Perché per quelli come loro, che possiedono solo la loro vita nuda, e se la
portano dietro come una casa, non c'è spazio nel mondo recintato, segregato,
privatizzato, appropriato che abbiamo costruito. Non un prato, la sponda di
un fiume, la radura di un bosco, il piazzale di un paese, dopo questa lunga,
sistematica «recinzione delle terre» che chiamiamo civiltà. Solo gli
interstizi degradati e avvelenati delle periferie, dove anche farsi un po'di
luce la sera diventa mortalmente pericoloso. O i «campi» a numero chiuso
dove stoccare i corpi non omologati alla logica del buon cittadino
consumatore (quelli che piacciono tanto ai nostri sindaci, da Roma a Torino
a Milano).
«Fuori gli zingari», titolava qualche giorno fa il quotidiano della Lega -
quelli che hanno quotato l'odio per l'altro alla borsa della politica. Ma
«fuori» da dove? Dalle proprie città (come se quel «proprio» ne indicasse
una sorta di proprietà privata)? E se sì, verso quali altre? O fuori
dall'Italia? Ma se molti di questi anomali «migranti» sono già fuggiti dal
proprio paese, dalla miseria, o dalle persecuzioni... O «fuori dal mondo»,
da questa Terra, da questa vita, la nostra, che non tollera più le vite
degli altri. O gli «stili di vita» altri. C'è una verità terribile in questo
atroce slogan, ed è che per gli ultimi non c'è più spazio d'esistenza nel
mondo di chi crede di essere tra i primi. Che chi possiede solo la propria
vita nuda «non è gente» per chi vive solo per possedere. La città di Livorno,
il suo sindaco, il presidente della Regione Toscana, hanno risposto con
civiltà, proclamando il lutto cittadino e mostrando un sincero cordoglio. Ma
il rischio rimane. L'antropologia del disprezzo e il rischio di una
disumanizzazione di massa nel mancato incontro con l'altro, sono veleni in
agguato. E il rapporto con gli «zingari» ne è un sensibilissimo indicatore.
Da questo misureremo il livello della nostra degradazione o della nostra
residua umanità.