LE SAETTE DEL RANCORE

di Albino Gusmeroli ricercatore Aaster

L'espressione sociale del rancore è oggi improvvisa, repentina e distruttiva come il fulmine, la saetta: il rancore è ramificato, abbagliante e scarica un'enorme quanto effimera potenza in un unico punto del terreno, quello che per qualche ragione è più esposto alle intemperie, cioè il capro espiatorio che meglio si presta ad attrarne la violenza. La violenza esercitata sulle donne, sull'immigrato, sul tossico o sull'anziano, come paura del diverso che c'è in ognuno di noi. E il rancore ha un motore, la paura

Così la ricerca del legame con l'altro ( Io sono come te), anche il rancore ( Io non sono come te) è un ingrediente emotivo primario della comunità, Entrambe queste emozioni, in en'epoca in cui sembrano entrate in crisi non solo le scritture sociali di mediazione degli interessi, ma anche, quelle di generazione e scambio delle passioni e delle emozioni, tendono a trasformarsi in sentimenti durevoli e dominanti rispetto a quei dispositivi di solidarietà meccanica ereditati dal Novecento. Alla base della ricerca di legame sociale vi è un sentimento diffuso di solitudine, di abbandono, mentre il rancore alleggia nella società come un risentimento sordo alla continua ricerca di un soggetto contro cui scagliarsi, come un demone tentatore che non trova pace sino a quando non trova un pertugio  per insinuarsi nell'anima dell'uomo, Qualcuno ha detto che il rancore sia come <prendere un veleno e aspettare che l'atro muoia>, alludendo in questo modo sia alla radice linguistica< rancido>,cioè qualcosa che ha perso le proprietà organolettiche più nobili, sia alla tenacia di un sentimento, capace di infettare la nostra visione del mondo e colonizzarne la memori collettiva, sia ancora all'idea che oggetto dell'odio sia contemporaneamente il sè e l'altro.

Per come sono rappresentate nella mostra, rancore e cura sono due reazioni al senso di insicurezza derivante dall'erosione delle forme di integrazione sociale. Dove l'insicurezza è innanzitutto difficoltà a dare continuità alla propria identità a causa di un ambiente sociale che per complesse ragioni viene percepito come instabile e minaccioso. Quando ognuno di noi sente che il proprio intorno di relazioni sociali oltrepassa un personale limite di instabilità, ecco scattare tutta una serie di possibili esiti: dalle derive che portano ad una qualche forma autoesclusione o comunque di restringimento dalle relazioni social (forme di disagio psicologico, tossicodipendenza, etc.), a quelle che invece che si scagliano in modo aggressivo contro quell' "altro"( le donne, l'immigrato, l'omosessuale, etc.) che le circostanze rendono più facilmente identificabile come la fonte dell'instabilità e dell'insicurezza. Da questo punto di vista i soggetti emblematici della fragilità rappresentati nella mostra ( l'anziano solo, la donna vittima i violenza, il matto, il drogato, il barbone, etc.) sono altrettante impersonificazioni dello stato di crisi permanente che sembra pervadere la dimensione sociale contemporanea e che fa dire al Alda Merini <Io mangio solo per nutrire il mio dolore>, proprio perchè la fragilità tende a porci di fronte alle viscere nauseabonde della vita umana, suscitando quell'indifferenza che David Foster Wallace ha riassunto nella <difficoltà di notar quello che vedi tutti i giorni>.

E, del resto, come ha lucidamente raccontato James Ballard, nelle enclave di lusso pacificate dal benessere le cose non sono certo migliori. Nelle sue utopie negative l'autore inglese ha insistito costantemente sull'inevitabile riemergere degli istinti primari in personaggi e contesti socialmente desensibilizzati, che riacquistano una qualche attenzione ala dimensione comunitaria solo quando esercitano o subiscono violenza. Anche per questo il rancore viene rappresentato nella mostra a mo' di saetta. L'espressione sociale del rancore è oggi improvvisa, repentina e distruttiva come il fulmine: il rancore è ramificato, abbagliante e scarica un'enorme quanto effimera potenza in un unico punto del terreno, quello che per qualche ragione è più esposto alle intemperie, cioè il capro espiatorio che meglio si presta ad attrarne la violenza. La violenza esercitata sulle donne, sull'immigrato, sul tossico o sull'anziano, come paura del diverso che c'è in ognuno di noi.

La saetta dedicata alla società securitaria intende soffermarsi su due aspetti che evidenziano lo stato diffuso di insicurezza sociale percepita. Da una parte si compiono grandi investimenti in sistemi di controllo e monitoraggio degli spazi pubblici e privati attraverso l'occhio elettronico delle telecamere e i dispositivi di allarme, attraverso sistemi di prevenzione passiva ( porte blindate, sistemi di bloccaggio alle finestre, casseforti etc.). A questi sistemi di difesa si affiancano poi tutti quegli strumenti di difesa attivi ( armi da fuoco, armi bianche, armi elettriche, spray anti aggressione, cani da guardia personale etc.), con una correlata crescita dei poligoni di tiro e dei corsi di autodifesa che derubricano la detenzione e l'uso delle armi  questione di gioco, moda, fitness. Questa tendenza sembra far pendere pericolosamente l bilancia a favore dell'equazione più armi = più sicurezza, lasciando sempre più ai margini l'idea che più armi significa minor sicurezza.

Nel complesso, sino ad oggi tali ingenti investimenti in prevenzione non sembrano comunque avere inciso sulla percezione di sicurezza della popolazione, pure avendo probabilmente contribuito alla diminuzione di alcune tipologie di reati. Ammesso e non concesso che tale diminuzione sia in parte attribuibile al massiccio investimento in sicurezza, ciò che appare evidente, ed è questo il secondo aspetto cui allude la saetta, è il sostanziale allargamento degli spazi in cui la cura della sicurezza viene delegata all'occhio deresponsabilizzante della telecamera, e l'auto difesa privata dei singoli in gruppi più o meno organizzati tollerata, quando non incentivata.

Ciò su cui la saetta intende quindi porre l'attenzione è il pericoli insito nel comportamento dell'uomo impaurito, blindato o armato e che in sostanza ha smesso di credere nel potere argomentativo della parola per lasciare spazio ad altri codici comunicativi. Alla base delle manifestazioni di rancore vi è quindi una fragilità diffusa che nasce dalla paura, quella che Kafka chiamava "la parte migliore di me stesso" cioè la materia prima da cui egli traeva la visione del mondo, e che oggi si trasforma troppo facilmente in pulsione radicale di "invidia dell'essere dell'altro" (Jacques Lacan). Quanto più la paura non trova ambiti di cura significativi, ovvero luoghi sociali di decantazione emotiva, tanto più essa tende a trasformarsi in rancore e odio.

La saetta del Biscotto nero è finalizzata a dare una prima rappresentazione delle vittime del rancore e delle forme di elaborazione dell'aggressività subita. Da questo punto di vista la saetta si caratterizza per assumere un fatto emblematico, l'omicidio di Abdul Salam Guibre (Abba) da parte di un padre e di un figlio gestori di un bar a Milano causato da un furto di un pacco di biscotti. Questa saetta più che sul rancore pianificato si focalizza su un fenomeno di rancore puntuale, quanto definitivo nelle conseguenze. E' per altro evidente che l'omicidio di Abba è qui considerato nella sua duplice radice drammatica: quella che ci interroga sui moventi sociali che stanno alla base di reazioni così spropositate e quella che ci interroga sui processi di integrazione sociale dei massicci flussi di migranti che investono la dimensione urbana.

Sul versante dei moventi si vuole qui rimarcare come questo episodio drammatico di "guerra civile molecolare" sia riconducibile ad un contesto in cui la domanda di sicurezza non trova più soddisfazione nè nella dimensione comunitaria del vicinato, di quartiere, con la sua funzione di controllo e presidio, nè è soddisfatta dallo Stato con le sue articolazioni preposte al mantenimento dell'ordine pubblico e all'amministrazione della giustizia. Qui forse il problema da porsi non attiene però tanto alla paura della criminalità in senso stretto, quanto piuttosto alla percezione di disordine sociale e di "inciviltà diffusa", che lo straniero -moltitudine incarna più di chiunque altro. Qui forse è la percezione dell'essere assediati dalla "degradazione dei costumi" a farla da padrona. Non è un caso che spesso siano proprio i piccoli commercianti a farsi interpreti del rancore di quartiere; loro che nel quotidiano contatto con la "gente", vedono susseguirsi smarrimento, paura, disagio, fragilità, risentimento, e ne rappresentano un pò il collettore sociale. Il tutto conchiuso nella fattispecie della vicenda di Abba, attraverso le riprese del suo funerale compiute da Pippo Del Bono, che testimoniano della sostanziale della indifferenza e solitudine nella quale la famiglia ha dato l'ultimo saluto ad Abba. Un segno di "disattenzione civile" che evidenzia un altro aspetto del malessere sociale: la fuga e l'incapacità di eleaborare una qualche forma di discorso pubblico. Un aspetto che la dice lunga sulla capacità di cura della politica.

Scontro e fuga sottostanno anche alla sezione dedicata al femminicidio. Questa saetta è infatti orientata a rappresentare la violenza sui soggetti della cura "originaria". Una violenza peraltro anch'essa "originaria", dal momento che viene esercitata da secoli e che si genera nell'ambito degli affetti ( non necessariamente seppure prevalntemente, quelli familiari) e che quindi non cessa di interrogarci in modo radicale sullo stato della civiltà contemporanea, tra rimozione e spettacolarizzazione mediatica. E se il mondo femminile è pervaso da tutta una serie di pratiche di autolesionismo che si originano nella sfera affettiva sono invece prevalentemente i maschi a ricorrerre al gesto estremo del suicidio quando la propria immagine sociale viene triturata dagli eventi biografici.

In questo senso la saetta della Malaombra è orientata a rappresentare il suicidio come atto estremo di comunicazione della solitudine al di là di quelle che possono essere le imponderabili motivazioni che portano le persone a compiere questa scelta, abbiamo posto questo tema tra le saette del rancore per sottolineare l'aspetto relazionale e per sottolineare che la questione non interroga solo l'Io, ma anche il Noi.

Le indagini compiute sul campo in merito alle modalità attraverso le quali le persone si rappresentano il rapporto tra suicidio e qualità del legame sociale emergono almeno tre tipologie di atteggiamenti. Da una parte ci è chi considera il suicidio una questione che attiene anche al "noi", appunto alla qualità delle relazioni sociali, giudicando che esse siano a tal punto decadute da incentivare tutti i comportamenti autolesionistici, sino all'estremo del suicidio. Per costoro l'unico modo di incidere sul fenomeno è il ritorno alla sana società dei valori saldi di un tempo. A questo tipo di atteggiamento se ne affianca uno opposto, cioè quello che considera il suicidio un fatto che riguarda esclusivamente la dimensione individuale e le sue derive psicopatologiche. Infine vi è un terzo atteggiamento, quello forse più problematico, che considera il suicidio una questione che attiene alla dimensione del "noi" pur non avendo chiarezza sulle vie da percorrere per agire sul tema. Ciò che essi sanno con una certa sicurezza è che non sia possibile tornare a quel "noi" idealizzato che in passato avrebbe protetto le persone dal gesto "insano".

Infine, sebbene la saetta dedicata alla Secessione dei benestanti non sia chiaramente riconducibile ad una forma di rancore, essa allude tuttavia ad un'altra malattia sociale della nostra epoca: quella dell'indifferenza e della scarsa attitudine all'assunzione di responsabilità verso l'altro. E' un tipo di secessione ben lontana dalla "misantropia come destino" di cui è impegnata l'opera di Thomas Bernhard, quando affermava: " Da un lato vorrei essere solo dall'altro tutti mi ripugnano". Qui, infatti, torniamo alla politica Ballardiana della lobotomia sociale, quella che nella città infinita nello sprawl urbano fatto di villette e centri commerciali più che di vere e proprie gated communities. In particolare preme qui porre in evidenza quelle forme di perimetrazione e ghettizzazione urbana come tentativo di ceti più abbienti di isolarsi dalla fragilità, dalla cura, dal rancore, attraverso la costituzione di enclave del benessere, pretendendo in questo modo di preservare la propria qualità della vita e di prosperare nel candore di un anestetico "rumore bianco".

....continua....

 

 

Tratto dalla rivista mensile "Communitas" n. 37

 

 

 

 

 

 

 

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