Lettera aperta ai giovani
Ragazzo, perché senti, soccorri, e non ti ribelli?
Don Roberto Sardelli
Sì, c'è un "macigno" da rimuovere e che separa i
giovani da noi con i capelli bianchi. Quando il 1° maggio vedo piazza San
Giovanni invasa da un milione di giovani estasiati davanti ad uno spettacolo di
musiche e canzoni mediocri che dovrebbero essere riscattate da una battuta o da
uno slogan appeso lì, alla sommità del palco, appeso e ignorato, mi chiedo se
questo non sia uno dei segnali del "macigno" che ci separa. E complici di quel
"macigno" sono addirittura i sindacati non la restaurazione. Durante i miei giri
serali nei quartieri della città e nelle riunioni, mi vado facendo questo quadro
della situazione:
1) allorché l'incontro si svolge in un contesto socio-politico, la prevalenza
delle teste bianche è netta. Qui i giovani sono assenti. Se ce n'è qualcuno e
prende la parola dico che avrebbe bisogno di un bel bagno nell'agitato fiume
della realtà sociale, ma lui la evita accuratamente e preferisce leggerla sui
giornali. Il suo progressismo arriva e si ferma qui.
La scena cambia solo quando prendono la parola le teste bianche. La loro
capacità di appassionarsi, di indignarsi, di esigere, di analizzare, si
ricollega subito ad una radice di speranze e di lotte che sono come un nervo
scoperto che reagisce al primo tocco. Essi si indignano ancor di più perché sono
consapevoli che le loro sofferte riflessioni sono come un fischiare all'oceano
dove l'oceano è costituito dalle istituzioni e da un ceto politico non più uso a
camminare tra la gente. Sotto le loro critiche vedo in filigrana un mondo
deluso, ma la cui delusione ha toccato i partiti e le istituzioni, ma non ha
leso la passione politica, la sensibilità per il sociale. Però se le cose
continuano ad andar così, dopo di loro ci sarà il silenzio. Ed allora, che fare?
Non possiamo cavarcela dicendo che le teste bianche parlano una lingua
incomprensibile ai giovani e cominciare il rito dell'autoflagellazione. Le
"lingue" sono sovrastrutture, sono strumenti e sotto gli strumenti ci sono le
realtà: alcuni vi si immergono, altri le fuggono rifugiandosi in una realtà
mediatica che è pura evasione. Tutti coloro che si occupano di educazione
conoscono molto bene questo nemico che il mercato consumista ha rafforzato e
reso più sottile, subliminale e insinuante. Nonostante ciò, l'educatore vero non
desiste, ma insiste, egli sa quanto sia arduo l'appuntamento qualitativo con
l'uomo, quando sia duro l'impegno per costruire una coscienza critica.
La politica non può delegare ad altri ciò che è anche un suo compito. Ci
lamentiamo dei giovani che sono assenti, ma chi li ha educati ad essere
presenti? Chi li ha educati alla partecipazione? Chi li ha coinvolti nel
dibattito? La partecipazione non nasce per germinazione spontanea, ma è il
frutto di una educazione che la nostra società non incoraggia e il ceto politico
deprime nella misura in cui sentenzia senza ascoltare e si acciglia se qualcuno
osa criticare. Le teste bianche gridano. I giovani tacciono. Il "macigno" resta
immobile. Se non si compiono gesti concreti in grado di mettere tutti e tutto in
discussione, due sono gli sbocchi possibili: o una democrazia fortemente
personalizzata, e questo è l'obiettivo sciagurato del Pd, o la deriva di un
ribellismo che si consuma più nel malcontento che in un progetto di società.
Certo, alla restaurazione non piacciono i progetti alternativi, ma la decisione
tocca alla sinistra. Se si lascia fare alla restaurazione in atto essa tenterà,
in ogni modo, di portarci sul suo terreno e noi dovremo adattarci al suo modo di
governare, a parlare con i suoi linguaggi, a imitare i suoi stili di vita, i
suoi costumi e i suoi riti, a far nostri i suoi progetti conflittuali, la sua
visione del mondo e della società. Per la restaurazione la politica è uno
strumento per dominare dividendo, per la sinistra la politica è uno strumento
per trasformare la società nel senso della giustizia.
Ci sono tempi e generazioni che non capiscono questo aut aut, ne seguiranno
altre che lo comprenderanno. La storia spesso procede per sbalzi.
2) Quando ci si incontra in un contesto di volontariato, qui le teste sono
prevalentemente giovanili. Sono giovani che ogni sera si incontrano con il mondo
escluso, ma tacciono. Nella descrizione del primo contesto c'è l'assenza dei
giovani, qui c'è il loro silenzio: ascoltano o sentono? Non riesco a capire e
glielo dico. Come fanno a incontrarsi ogni sera con la miseria sociale, con la
solitudine, con gli effetti più devastanti del nostro individualismo personale e
neoliberista e a non dare valenza politica a una tale esperienza? Così la loro
stessa fede e la loro umanità diventano pratiche e ne seppelliscono l'élan
profetico facendone una religione-oppio. I silenzi parlano di rassegnazione all'immodificabilità
delle strutture dell'organizzazione sociale, lasciano tranquilli i governi della
città che producono esclusione e alienazione che loro stessi ogni sera
soccorrono, ma non combattono. Dei problemi sociali, vedono solo il lato
assistenziale, aprono le mense e le raddoppiano il giorno di Natale e di Pasqua
e così facendo mettono una mano sulla bocca del povero perché non gridi la sua
dignità e riceva in silenzio l'elemosina del potere. Quali chiese, quali
gerarchie hanno insegnato a questi giovani a compiere simili delitti? Ma…
silenzio! Sentono, ma non ascoltano. Eppure bisogna insistere perché se è
possibile un altro mondo è possibile anche un'altra città, un altro quartiere, è
possibile comunicare.
Non sono d'accordo con la disperazione. Il nubifragio acquisisce la mia attesa
del sereno. Il movimento della speranza «indica la ricerca incessante di nuovi
spazi per l'espansione del nostro essere e di nuove vie di uscita dalle
difficoltà che tutti sperimentiamo. L'unica, debole garanzia a cui la speranza
fa ricorso viene dunque offerta dal criterio del suo stesso tendere, dalla
constatazione che ogni critica all'imperfezione, all'incompiuto,
all'insopportabile, all'intollerabile presuppone senza dubbio la
rappresentazione e la nostalgia di una possibile perfezione» (E. Bloch).
Rassegnazione e disperazione sono una miscela preparata ad arte. Se glissiamo
sul "tendere" restiamo nello stagno della mediocrità dell'essere "né caldi né
freddi". Ha vinto, sì, la restaurazione, ma tale vittoria è stata resa possibile
dal grigiore politico che tutti hanno contribuito a creare divorziando dalla
base e credendo, solo credendo, di interpretarne i bisogni e gli umori.
Il primo "macigno" da rimuovere è quello di cui non si vorrebbe parlare, ma non
per questo motivo il "macigno" scompare. Ricucire il rapporto con i cittadini è
opera che non può essere affidata alle parole e ai convegni degli intellettuali
e dei partiti, ma ha gesti forti e di contrasto che ci liberino dalla panacea
bipartisana che tende ad ovattare tutto senza risolvere nulla.
03/02/2008
►LA REPLICA A DON SARDELLI DI MASSIMO
ILARDI