CASSAZIONE CIVILE: SENTENZA
NULLA LA CLAUSOLA STATUTARIA CHE DEVOLVE AL COLLEGIO DI PROBIVIRI LE
CONTROVERSIE TRA SOCI E SOCIETÀ


"E' nulla la clausola dello statuto della società cooperativa che devolve le controversie tra società e soci all'arbitrato (anche irrituale) di un collegio di probiviri nominato dall'assemblea sociale, salvo che, per espressa previsione statutaria in tal senso, i probiviri siano stati designati da tutti i soci all'unanimità".
 

Cassazione civile, sez. I, 18 marzo 2008, n. 7262

Fatto

Con sentenza emessa il 18 agosto 1999 il Tribunale di Macerata, chiamato a pronunciarsi sull’opposizione proposta dal sig. P.P. contro la propria esclusione dalla Cooperativa Edilizia Donata nonché sulla domanda di risarcimento dei danni formulata dal medesimo attore nei confronti dell’amministratore di detta società, sig. D.L., dichiarò tali domande improponibili perchè precluse da una clausola dello statuto sociale che rimetteva ogni controversia tra società e soci all’arbitrato irrituale di un collegio composto da tre probiviri.
Il sig. P. propose impugnazione eccependo la nullità della suindicata clausola compromissoria, che riservava la nomina dei probiviri alla competenza dell’assemblea e, pertanto, non garantiva la partecipazione di entrambe le parti alla designazione dell’organo arbitrale.
Il gravame fu però rigettato dalla Corte d’appello di Ancona, con sentenza resa pubblica il 25 luglio 2003, avendo detta corte ritenuto che la riferita eccezione di nullità della clausola compromissoria non avesse fondamento.
Avverso tale sentenza il sig. P. ha proposto ricorso per cassazione.
Oli intimati non hanno svolto in questa sede difesa.

Diritto

1. La corte d’appello ha fondato la propria decisione su quattro differenti argomenti, alternativi ed autosufficienti.
In primo luogo, ha ritenuto che il denunciato difetto del concorso della volontà di entrambe le parti nella designazione degli arbitri non è più, dopo la modifica apportata dalla L. n. 25 del 1994, al testo dell’art. 809 c.p.c., causa nullità della clausola arbitrale. In secondo luogo, essendo pacifico tra le parti che l’arbitrato previsto da detta clausola aveva carattere irrituale, ha reputato ad esso non applicabili le disposizioni dell’art. 806 c.p.c. e segg., in tema di numero e modalità di nomina degli arbitri. Ha poi osservato che, comunque, non era stato dimostrato che l’appellante non avesse partecipato all’assemblea nella quale, in epoca anteriore al sorgere della lite, si era provveduto alla nomina del collegio dei probiviri, onde nulla consentiva di mettere davvero in dubbio l’imparzialità dell’organo arbitrale. Infine, ha affermato che l’eccezione di nullità della clausola compromissoria, essendo questa contenuta nello statuto sociale, non avrebbe potuto esser sollevata da chi, come l’appellante, a quel medesimo statuto aveva prestato adesione all’atto del suo ingresso in società.
Il ricorrente, pur deducendo formalmente un unico motivo di ricorso, col quale denuncia la violazione dell’art. 809 c.p.c., e vizi di motivazione della sentenza impugnata, sottopone a censura tutte le quattro riferite rationes decidendi.
Converrà quindi esaminare separatamente i diversi profili di cui si discute, non senza due preliminari avvertenze.
2. La prima avvertenza è che la natura propriamente arbitrale della clausola statutaria in questione clausola volta a deferire ad un collegio di probiviri, periodicamente designato dall’assemblea, la risoluzione delle controversie tra soci e società - è affermata con sicurezza dalla corte d’appello e non risulta messa in dubbio neppure dal ricorrente. Ragion per la quale, non potendo questo giudice di legittimità procedere ad accertamenti ulteriori in ordine ai fatti di causa e non essendo il tenore della clausola mai neanche riportato nell’impugnata sentenza o nel ricorso, tale presupposto è destinato a restare fermo. Non è possibile cioè postulare che detta clausola, come in taluni casi accade, abbia una valenza diversa da quella ipotizzata dai giudici di merito e costituisca non già uno strumento arbitrale di risoluzione delle controversie bensì solo un rimedio endosocietario inteso a prevenire le liti ed a completare il procedimento di esclusione del socio dalla cooperativa.
La seconda avvertenza è che, per ragioni cronologiche, non possono venire qui in questione le modifiche apportate alla disciplina dell’arbitrato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, (e neppure, eventualmente, quelle dettate dal D.Lgs. n. 5 del 2003, per gli arbitrati in materia societaria), di modo che ogni riferimento che nel prosieguo si farà all’art. 806 c.p.c. e segg., avrà sempre riguardo al testo anteriore a dette modifiche.
3. Venendo ora all’esame dei profili controversi, può iniziarsi da quello riguardante le conseguenze che, sulla validità di una clausola arbitrale, è destinata ad avere la violazione del principio in forza del quale ciascuna delle parti deve poter concorrere alla formazione dell’organo arbitrale.
Il principio della par condicio delle parti nella nomina dei soggetti investiti del compito di dirimere la controversia (principio che, sia detto incidentalmente, è strumentale a quello d’imparzialità degli arbitri, ma non si esaurisce del tutto in esso né con esso completamente si identifica) risponde ad un’esigenza naturalmente insita nel carattere c.d. “isonomico” della giustizia arbitrale ed è ad essa essenziale, onde si è ritenuto che si tratti di un principio di ordine pubblico (cfr. Cass. 21 luglio 2000, n. 9565). Contrariamente a guanto ritenuto dalla corte anconetana, siffatto principio non è stato abrogato - e neppur soltanto affievolito - dalle modifiche che la L. n. 25 del 1994, ebbe ad apportare al terzo comma dell’art. 809 c.p.c.. Modifiche che hanno approntato sistemi integrativi per ovviare ad eventuali carenze nel meccanismo di nomina degli arbitri previsto dalle parti, ma in nessun modo consentono di ritenere valido un compromesso (o una clausola arbitrale) implicante la nomina di arbitri designati da una parte sola.
Le censure in tal senso formulate dalla difesa del ricorrente appaiono, dunque, pienamente condivisibili.
4. Sono del pari da condividere le censure che riguardano la seconda ratio decidendi dell’impugnata sentenza.
Non v’e ragione per discostarsi dall’insegnamento, già altre volte enunciato da questa corte, secondo cui il concorso di entrambe le parti nella nomina degli arbitri, essendo funzionale - come già si è ricordato - ad un insopprimibile valore di garanzia dell’imparzialità di chi è comunque chiamato a risolvere una controversia tra soggetti diversi, prescinde dalla natura rituale o irrituale dell’arbitrato (cfr. Cass. 11 dicembre 2006, n. 26318; Cass. 29 novembre 1999, n. 13306; e Cass. 1 marzo 1995, n. 2304). Né il fatto che l’arbitrato irrituale trae fondamento dalla volontà negoziale delle parti vale a distinguerlo, sotto il profilo dianzi considerato, da quello disciplinato espressamente dal codice di rito, giacché anche quest’ultimo ha base in un presupposto di natura negoziale ed è espressione dell’autonomia privata delle parti, la quale è meritevole di tutela anche quando mira a realizzare strumenti di risoluzione delle controversie diversi dal procedimento arbitrale regolato dal predetto codice, ma solo a condizione di non mettere e repentaglio quel valore d’imparzialità che si è già visto essere inscindibilmente legato al carattere isonomico di ogni forma arbitrale.
5. Neanche il terzo argomento su cui si fonda l’impugnata decisione regge alla critica.
La nullità della clausola compromissoria di uno statuto di società cooperativa che devolva la cognizione delle controversie fra la stessa e i soci ad un apposito collegio di probiviri, senza prevedere la designazione di costoro anche da parte del socio in lite, necessariamente discende dal già richiamato principio della par condicio delle parti nella nomina degli arbitri (cfr. Cass. n. 2304/95, cit.). I probiviri sono di regola nominati dall’assemblea, e ciè è già sufficiente a rendere problematica per loro l’assunzione della funzione arbitrale, in una lite di cui la società sia parte, perchè se anche non si volesse mettere in discussione la terzietà funzionale dei probiviri medesimi, non sarebbe comunque terzo l’organo che li ha nominati: l’assemblea è infatti, incontestabilmente, un organo della società, e la società è una delle parti in lite.
È bensì vero che la giurisprudenza di questa corte ha manifestato talvolta alcune aperture a questo riguardo, affermando che una siffatta clausola non è di per sè nulla, ma lo è solo ove sia dimostrata la concreta esistenza, in forza delle modalità di nomina, di una situazione incompatibile con il requisito dell’imparzialità che gli arbitri devono avere: sicchè è stata riconosciuta la legittimità di clausole statutarie che devolvono la qualità di arbitri a soggetti periodicamente designati dall’assemblea, a condizione che tale designazione sia avvenuta all’unanimità o almeno con il voto favorevole del socio poi venuto in lite con la società (Cass. 24 luglio 2007, n. 16390; Cass. n. 26318/06, cit.; Cass. 7 marzo 2001, n. 3316; Cass. 30 agosto 1999, n. 9114; e Cass. 12 maggio 1995, n. 5216).
Qualche perplessità tuttavia è lecito nutrire in ordine a tale ultima affermazione, perchè la deliberazione assembleare di nomina degli arbitri si sostanzia pur sempre in un atto collegiale unilaterale, riferibile alla società persona giuridica, e mal si presta ad essere scissa nelle singole manifestazioni di voto espresse dai soci, quasi si trattasse di atti con valenza negoziale loro propria, imputabili a ciascun votante e destinati a produrre autonomi effetti nei rapporti con gli altri soci o con la medesima società. Occorre evitare il rischio di equivocare tra il principio consensualistico, che regge i rapporti contrattuali, e le regole proprie dell’organizzazione societaria. Il socio che partecipa ad un’assemblea non vi esprime una propria specifica volontà negoziale, destinata ad incontrarsi con quella di altre parti contrapposte per realizzare così consensualmente un componimento negoziale dei rispettivi interessi. Egli, piuttosto, concorre all’espressione di una volontà collegiale, che come tale resta imputabile all’ente e non ai singoli.
Occorrerebbe perciò, quanto meno, tener distinte due situazioni.
Se lo statuto prevede sin dall’origine (ed in termini generali) che i probiviri, cui sia attribuita una funzione arbitrale nelle controversie tra società e soci, possono essere designati soltanto col concorso del voto unanime di tutti i soci (non solo quelli presenti e votanti in assemblea), ci si può forse spingere ad ammettere che il meccanismo negoziale così prefigurato è, in concreto, idoneo a garantire la par condicio: perchè richiede comunque e sempre la cooperazione originaria alla nomina degli arbitri anche da parte del socio poi destinato a divenire controparte della società, onde la volontà da lui manifestata in assemblea può assumere, appunto in virtù dell’indicata previsione statutaria, un valore che eccede quello della mera espressione di voto per concorrere, anche sul piano dei rapporti intersoggettivi, alla comune designazione negoziale degli arbitri (fermo peraltro restando che la clausola arbitrale non potrebbe neppure in tal caso operare per chi avesse acquisito la qualità di socio in un momento successivo alla designazione dei probiviri, non avendovi concorso).
Qualora invece una tale previsione statutaria non vi sia, e però la nomina dei probiviri risulti, di fatto, esser stata deliberata dall’assemblea all’unanimità dei presenti, o comunque con il voto favorevole del socio che è poi entrato in contrasto con la società, questa sola circostanza non può esser sufficiente a garantire la validità della clausola compromissoria, perchè si tratta di una circostanza contingente, di per sè inidonea a modificare le caratteristiche proprie della deliberazione di un organo societario il quale, per previsione di legge e di statuto, ben avrebbe potuto assumere la medesima decisione anche solo con un voto a maggioranza.
La validità della clausola compromissoria, e del meccanismo di nomina degli arbitri in essa previsto, non può insomma dipendere dalle concrete modalità e dal variabile esito del voto; né, d’altronde, parrebbe ammissibile che una clausola compromissoria, inserita nello statuto sociale e perciò concepita per disciplinare i rapporti tra i soci su base di generalità e di parità, possa produrre effetto nei confronti dei soli soci che, con il loro voto, abbiano concorso in assemblea alla designazione dei probiviri, ma non anche nei confronti degli altri soci assenti o dissenzienti (la necessità di prescindere da ogni indagine sulle modalità con le quali la nomina degli arbitri sia in concreto avvenuta, pure in ipotesi di delibera presa all’unanimità o con il voto del socio in lite, era stata del resto già affermata da Cass., 14 settembre 1991, n. 9604).
Stando così le cose, la decisione assunta nel presente caso dalla corte d’appello appare evidentemente errata, perchè muove dalla presunzione che il socio poi venuto in lite con la società abbia partecipato (o, almeno, sia stato posto in condizione di partecipare) alla deliberazione assembleare con la quale erano stati nominati i probiviri al cui arbitrato la risoluzione della lite avrebbe dovuto esser rimessa. Ma, anche ammesso che una simile presunzione tenga, essa certamente non basta a dimostrare né che l’odierno ricorrente abbia concorso con il proprio voto favorevole alla nomina di detti probiviri, né che tutti gli altri soci abbiano del pari aderito a quella nomina, né che vi fosse una previsione statutaria in forza della quale sia possibile riconoscere alle manifestazioni di voto espresse da ciascun socio quella valenza di accordo negoziale intersoggettivo in ordine alle persone degli arbitri che si è visto essere condizione essenziale per attribuire validità alla clausola compromissoria.
6. Fondate sono pure le obiezioni che il ricorrente muove all’ultima delle argomentazioni con cui la corte territoriale, negando che la nullità della clausola arbitrale possa essere eccepita dal socio il quale, per il fatto stesso di entrare in società, ha manifestato la propria adesione allo statuto in cui detta clausola figura, ha disatteso la proposta eccezione.
La giurisprudenza citata nell’impugnata sentenza a sostegno dell’affermazione sopra riferita non è pertinente. Altro è infatti dire che la nullità della clausola compromissoria, ove questa non consenta la partecipazione di tutte le parti alla designazione degli arbitri, può essere superata dall’adesione anche successiva della parte originariamente sacrificata dal meccanismo di designazione (come indicato da Cass. n. 3316/01, cit.; e da Cass. 24 agosto 1990, n. 8711), altro è sostenere che l’adesione al contratto di società comporta, di per sè, l’accettazione sanante di ogni clausola eventualmente nulla dello statuto sociale.
L’intento eventualmente manifestato dal socio di dar corso all’arbitrato, dinanzi agli arbitri originariamente designati senza la sua partecipazione, equivale ad una manifestazione di volontà del socio stesso, volta ad investire proprio quegli arbitri della potestà di provvedere sulla lite, e perciò integra il consenso negoziale che originariamente mancava. Nulla di tutto ciò può ricavarsi, invece, dal mero fatto che il socio, entrando in società, abbia accettato di assoggettarsi alle clausole dello statuto sociale: perchè l’eventuale nullità di una o più di tali clausole evidentemente non per questo viene sanata, né in alcun modo risulta così manifestata una qualsiasi volontà di fare successivamente propria la designazione arbitrale da altri operata in base alla clausola nulla.
7. L’accoglimento del ricorso, alla stregua delle argomentazioni che precedono, implica la necessità di cassare la sentenza impugnata e di rinviare la causa alla Corte d’appello di Ancona (in diversa composizione) per un nuovo esame.
Il giudice di rinvio si atterrà al principio secondo cui è nulla la clausola dello statuto della società cooperativa che devolve le controversie tra società e soci all’arbitrato (anche irrituale) di un collegio di probiviri nominato dall’assemblea sociale, salvo che, per espressa previsione statutaria in tal senso, i probiviri siano stati designati da tutti i soci all’unanimità.
Al medesimo giudice di rinvio si demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2008.
Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Hit Counter