Da il manifesto del 8 luglio 2007
Scuola senz'arte. Ma di parte
La scuola italiana è stata più di altre, in Europa, marcatamente di
classe. Ha puntualmente svolto il ruolo assegnatole di conservazione di un
equilibrio sociale discriminatorio. L'analfabetismo è stato debellato molto
in ritardo rispetto ad altri paesi europei, danneggiando così sia gli
esclusi, sia le loro generazioni successive, visto che il livello culturale
dei genitori costituiva una causa pesante di condizionamento scolastico dei
figli.
Anche l'espansione della scuola secondaria giunge in ritardo nel nostro
paese: ora è finalmente in crescita, ma anche qui siamo indietro e con gravi
strozzature sociali e culturali. Inoltre, la debole e insufficiente
preparazione di base è costantemente esposta all'obolescenza e a forme di
analfabetismo secondario di ritorno, privando le persone delle conoscenze
necessarie per affrontare quotidiani problemi di vita e di lavoro.
Nonostante la crescita degli ultimi decenni siamo lontani dalla scuola equa
e di qualità di cui abbiamo assoluto bisogno. Una scuola di classe: duole
constatare che un tema così cruciale sia così poco presente nella
pubblicistica e negli scritti dei maîtres à penser che discettano sulla
scuola nei quotidiani.
A mio avviso la sinistra, la stessa tradizione comunista, hanno
sottovalutato questo aspetto. La discussione educativa in Italia è
socialmente poco sensibile e soprattutto ancorata a vecchi schemi, superati
dalla nuova realtà sociale (salvo eccezioni). La scuola di cui si parla non
esiste più. Anche per questo il dibattito attuale sulla scuola si arroventa
di ideologismi antichi, ignora le rilevantissime novità che hanno investito
il campo dell'education. Lo stesso pensiero marxista ha sofferto
dell'egemonia culturale del neo idealismo proto novecentesco, che è alla
base del nostro impianto didattico culturale. Ad esempio, si sono presto
archiviati Banfi e De Bartolomeis. Peggio, si è sepolta Maria Montessori, la
più alta presenza italiana nell'education, e con lei quanto di straordinario
anticipo essa rappresentava per la prospettiva di una scuola equa e di
qualità. Analoga sorte, su altro piano, sembra esser capitata
all'insegnamento di Emma Castelnuovo e di don Milani, più evocati che
praticati.
Non si è posto, cioè, l'accento sul fatto che la discriminazione sociale
scolastica ha riposato, certo, sulle differenze censitorie e culturali delle
famiglie, ma trova il suo strumento principale nell'impianto didattico e
metodologico della nostra scuola. Si è voluto un insegnamento deduttivistico,
autoritario, calato dall'alto; i corsi partono dalle definizioni, dalle
leggi generali, dalle regole astratte, dalla sistematica classificatoria, in
una parola dall'astrazione, senza motivare, dare senso, rispondere a
interrogativi propri, a curiosità specifiche. Fin dall'inizio si costruisce
un muro oggettivamente selettivo, che ha funzionato da selezione sociale.
Non si vuole qui revocare in dubbio la necessità dell'astrazione, della
concettualizzazione, senza le quali non esiste cultura. Si discute però
l'arbitraria identificazione del sapere con l'immediata e preventiva
teorizzazione, e non la teorizzazione in sé; si contesta la scelta puramente
gnoseologica e l'ideologico rifiuto di ogni momento empirico, fisico,
fattuale, come componente anch'esso della conoscenza e come tramite di
stimoli e motivazioni necessari in ogni apprendimento. Come il primo momento
di apprendimento.
Alla scuola è stata assegnata una mera funzione di trasmissione della
conoscenza, con una rigida gerarchia interna tra saperi: e cioè, tra saperi
presunti nobili, veri, e saperi considerati minori, i primi funzionali alla
formazione della «classe dirigente», destinati a chi comanda, e i saperi
poveri riservati ai più, agli esecutori e tecnici (o presunti tali). Questo
il senso vero della voluta distinzione didattica e di contenuto culturale
fra il liceo classico e gli istituti tecnici o - peggio - professionali. Nei
primi la qualità, negli altri la povera quantità. Non voglio sminuire qui la
qualità del liceo classico, certamente ragguardevole allora, ma il fine di
quella gerarchia, la natura dell'impianto didattico deduttivistico, la
condanna di certe scuole tecniche alla sola e piatta empiria, separando
tecnica e scienza, negando ed evitando la necessaria contaminazione fra
sapere e fare. Un capolavoro di grave iniquità sociale e ottusa miopia
politica, con la conseguenza che ora - nella società della conoscenza -
tutto ciò ci colloca ai margini della giustizia sociale e contemporaneamente
fuori dal mondo più evoluto e produttivo. Non è proprio così che si esprime
la vera sostanza del classismo, dell'iniquità sociale, e - oggi - del
generale danno economico?
Proprio a questo si deve se nella scuola è stato cancellato il metodo
scientifico-sperimentale, per cui le leggi fisiche si imparano sulla carta,
si giunge subito alle astrazioni, non vi è spazio per esperienze e
osservazioni che impegnino personalmente l'alunno e lo stimolino a costruire
il suo risultato conoscitivo. Come diceva Hegel e ricordava Oppenheimer, è
come pretendere di insegnare a nuotare fuori dall'acqua. In Italia ci si può
diplomare senza aver mai visto un laboratorio scientifico né aver superato
un esame di laboratorio, cosa inimmaginabile in paesi evoluti. Nel nostro
metodo didattico non si vuol sollecitare la curiosità scientifica, la
meraviglia di una scoperta. Più che altrove da noi calano pericolosamente
gli iscritti agli istituti tecnici come ai corsi delle lauree scientifiche:
siamo in coda nelle classifiche internazionali. Dobbiamo ammettere
malinconicamente che in Italia la scienza e la tecnologia non sono
considerate cultura. Abbiamo cancellato anche Leonardo e Galileo. Siamo di
fronte a una vera e propria emergenza scientifico-tecnologica.
L'altra grande carenza del nostro impianto educativo puramente gnoseologico
è l'assenza di ogni stimolo alla creatività, alla espressività artistica di
ogni alunno. Nella scuola italiana manca l'arte, la sollecitazione delle
pulsioni artistiche che sono in ognuno di noi. Ad esempio, la musica
praticata, la possibilità di imparare a suonare o cantare, e quindi la
grande gioia che essa genera, oltre al severo impegno e rigore gioioso che
fare musica richiede, non hanno cittadinanza, non sono considerate cultura
né se ne apprezza l'indubbia valenza formativa. In tutti gli stati evoluti
si insegna la musica a scuola fin dall'infanzia, in Italia no: che male
abbiamo fatto per meritarci questo?
Dewey, Bruner, Gardner, e tanti altri, i cognitivisti, le neuroscienze hanno
dimostrato in mille modi che il processo di apprendimento richiede il
concorso dell'intelligenza razionale e di quella emotiva, che pensiero
riflessivo e creatività vanno di pari passo, che occorre costante
interazione tra sapere e fare. Da noi i tardo gentiliani, forse
inconsapevolmente, continuano a predicare la contrapposizione fra segmenti e
bastoncini, si esercitano nel dividere l'emisfero celebrale sinistro da
quello destro. Descrivono visioni apocalittiche di nuove generazioni
ignoranti, violente, distratte, svogliate, rivelando in tal modo di non
sapere nulla delle profonde novità presenti nella cultura giovanile attuale,
dei nuovi interessi, delle abilità cognitive moderne, del loro pensiero
spaziale espresso in segni e immagini, peraltro a noi ignoto, dei codici
linguistici non verbali ( i numeri, le note, le immagini), di cui esse
sentono bisogno per interpretare e cogliere la complessità delle nuove
conoscenze.
Il mondo, oggi, il globo vero e proprio entra nelle nostre vecchie aule, fra
i banchi antichi. Esso sconvolge e cambia così la comunità educante. Esige
più creatività, tracciati meno rigidi e convenzionali: cioè libertà, libertà
vera di essere se stessi. Parla più lingue insieme. E' fatto di volti con
tanti colori, naviga in internet e può dialogare, persino studiare con amici
lontani, non solo con il compagno di banco. Abbiamo dato spazio a tutto
questo con l'autonomia scolastica, apprestato la cornice istituzionale della
creatività, della libertà di apprendere nelle differenze, della fine della
gerarchia fra i saperi. E si è persino avuto paura che essa contaminasse,
lasciasse soli gli insegnanti. Ma è l'autonomia che apre la scuola non più
solo alla trasmissione dall'alto, ma alla ricerca didattica, a diffondere ma
anche a creare sapere, a modellare la scuola sugli alunni e non viceversa,
che vuol dire che l'insegnamento può non venire solo dall'alto, ma può e
deve adattarsi ai diversi.
Perché i tanti sono inevitabilmente diversi, con diverse attitudini, e
vocazioni, e interessi. Molti devono essere sostenuti per la loro
difficoltà, perché il proprio viaggio educativo può essere troppo difficile,
possono mancare le condizioni, ci si può sentire in affanno - ed è questo il
senso dell'equità, non lasciare nessuno indietro, «non uno di meno». Evviva
don Milani! E poi ci sono i talenti da sostenere, cui non si può infliggere
un ritmo e una routine che mortificano le loro potenzialità, scoraggiano il
loro impegno: anche questo sarebbe iniquo. L'uguaglianza è il regno delle
differenze e delle pari opportunità, è quello che da tempo chiamo il Diritto
al Successo Educativo per tutti, a seconda dei vari bisogni e delle varie
potenzialità ed impegno.
Certo, se c'è più autonomia e libertà, si devono valutare i risultati, i
successi di una scuola, di una classe, di un gruppo; ciò che resta
dell'apprendimento, nel tempo, l'efficacia dei metodi e delle scelte
adottate. So bene che questa è una scuola ben più difficile di quella basata
sulle lezioni frontali e sull'insegnamento deduttivistico e solo
gnoseologico. Ma si può considerare compito facile fare apprendere tutti, e
tanto, e bene? Conciliare equità socio-culturale e qualità? Un tempo si
sarebbe detto: ma questa è un'utopia. Si, è un'utopia, di quelle che si
possono realizzare però, di quelle che talvolta i rivoluzionari si sono
impegnati a realizzare. Quel che so è che non c'è altra via: o si abbassa la
qualità per la massa, o si abbassa la massa (escludendo) per la qualità. La
via che propongo è obbligata: bisogna volerla perseguire, liberandosi del
vecchio armamentario educativo, e sapendo che è una via non breve. Ma è
necessaria.
►REPLICA A BERLINGUER DI ALCUNI INSEGNANTI PUBBLICATA SU IL MANIFESTO DEL 12 LUGLIO 2007