Carta.org 2004 Intervista a Massimo Ilardi    http://www.carta.org/rivista/settimanale/2004/46/46Viccaro.htm

Il «consumo totale» come legge del mondo

intervista a Massimo Ilardi di Emiliano Viccaro

+ Massimo Ilardi insegna sociologia urbana presso la facoltà di architettura di Ascoli Piceno, all’università di Camerino, ed è direttore della rivista Gomorra. Da molti anni ha concentrato i suoi studi sulle trasformazioni economiche, sociali e culturali delle metropoli «post fordiste», indagando con attenzione i fenomeni legati al consumo, agli stili di vita delle nuove generazioni. Nel suo ultimo libro, «Nei territori del consumo totale» [edito per DeriveApprodi], Ilardi propone un’ipotesi interessante: «Nella metropoli – si legge nell’introduzione - è l’agire consumistico a porsi come principio organizzatore delle relazioni tra individui e tra individui e merci, e a disegnare il territorio in modo inedito».
Siamo andati a trovarlo nella sua casa di Trastevere, a Roma.


Il tuo libro parte dall’ipotesi che il «consumo» non solo è ormai parte integrante della «produzione», ma assume, sempre più, un carattere autonomo, in grado di mettere in crisi i meccanismi di mercato.

Occorre operare un rovesciamento, che indica una via d’uscita dal binomio storico produzione/politica che ha regolamentato la società moderna negli ultimi secoli. Ogni giorno verifichiamo che il consumo è diventato una pratica di vita centrale: la nostra cultura, i nostri interessi, i nostri desideri, i nostri spostamenti sono determinati dal consumo. Se riduciamo il consumo a frivolezza, edonismo, estetica, non cogliamo la portata di un fenomeno che sta soppiantando la potenza della produzione, quella che ha formato generazioni intere.
Oggi il consumo si presenta come necessità: noi non possiamo che consumare. Tutte le nostre scelte, strategiche o di vita quotidiana, non si possono situare che all’interno di questo agire. La produzione stessa diviene un atto del consumo e non più, come una volta, un processo a monte. Il produttore postfordista è prima di tutto consumatore dei suoi mezzi, del suo intelletto, delle sue capacità linguistiche: egli produce in quanto consuma i suoi strumenti di lavoro. Questo lavoratore porta nella produzione le tonalità affettive apprese nel suo agire consumistico. Ed è in quella dimensione che le fa esplodere, quando i desideri rompono la gabbia degli spazi ordinativi del mercato.

Nel senso comune, la figura del consumatore è associata a quella del cittadino comune che compra oggetti o usufruisce di servizi.

Il consumatore non è il cittadino. L’agire consumistico si qualifica come agire sostanzialmente distruttivo: di oggetti, di legami, di relazioni sociali. Nel senso lato del termine, come elemento di trasformazione continua. D’altra parte, il consumo si rivolge all’individuo e non alla società, altrimenti non avrebbe quella capacità pervasiva di riproduzione. Noi compriamo determinate cose perché sappiamo che quelle cose, seppur indossate da altri o usate da altri, si rivolgono a me come singolarità. Ecco perché questo tipo di agire ha «vinto» sull’agire politico e sociale: per la potenza di fascinazione che ha nei confronti dell’individuo.
Parliamo di qualcosa di diverso dal cittadino. Il cittadino è colui che obbedisce alla legge della città, è subordinato alle regole, ai costumi e alle leggi della città. Più si obbedisce e si partecipa alla vita sociale della città, più si è cittadini. Questa figura però è stata sconfitta perché è stata sconfitta l’idea di città.
La metropoli nasce dal superamento delle caratteristiche che segnavano la città: i confini chiusi delle sue mura, le leggi immutabili, le regole e i costumi identitari. Ad un certo punto, le mura crollano perché – come raccontava Pasolini – quel «popolo di diavoli» che abitava le grandi periferie urbane con una cultura individualista, antipolitica e consumista, decide di invadere il centro della città, imponendo la propria cultura. Parlo naturalmente degli anni settanta, periodo in cui avviene la più grande trasformazione sociale e antropologica della storia italiana.
In quegli anni i «barbari» invadono la città storica: basti pensare, rimanendo a Roma, all’esperienza straordinaria dell’Estate romana. Quella cultura «eretica» trasforma i luoghi sacri della città in luoghi del consumo di massa. Oggi, se noi due ci diamo un appuntamento, non ci incontreremo al Pantheon, ma, probabilmente, davanti ad un tempio del consumo. È il consumo che rinomina i luoghi della metropoli.

Quale ruolo può avere il «pensiero critico»?

Quando a «politicizzarsi» sono i desideri, le emozioni, le aspettative, i bastioni della politica tradizionale e moderna cadono, non ce la fanno. Ad un certo punto, il mio e il tuo desiderio sopravanzano le possibilità di consumare; quando il mercato non riesce più a governare con i suoi strumenti - immaginario, etica, morale, ma anche regole severe - la città, deflagra il conflitto sociale. Parliamo qui di conflitti metropolitani che spesso sconfinano in vere e proprie rivolte – saccheggio, riappropriazioni selvagge, ecc. – Non c’è stato movimento urbano, in questi ultimi anni, che non abbia prodotto questi fenomeni.

Quello che chiami «agire consumistico» sembra un duplice processo: da una parte, conseguenza radicale della messa a valore del territorio, e della «nuda vita»; dall’altra, agente di nuovi conflitti contro il mercato e la vecchia rappresentanza politica.

La politica governava la società attraverso grandi [e spesso terribili] narrazioni o ideologie. «Valori» che si traducevano nelle grandi evocazioni del «Socialismo», della «Rivoluzione», del «Partito», della «Militanza». Il mercato, invece, per governare la società sceglie due strade: da una parte, militarizza il territorio, utilizzando l’emergenza permanente come strumento di regolazione delle relazioni sociali; dall’altra, produce a dismisura immagini e immaginario, imponendo un processo di interiorizzazione dei valori e delle dinamiche di consumo. Ma, spesso, questi due strumenti non riescono a disciplinare una potenza che non rimane negli argini.
Si produce così un conflitto sociale che prende la forma della rivolta, del saccheggio, rendendo ingovernabile pezzi sempre più grandi di metropoli. Possiamo parlare di «guerra civile locale», una specie di declinazione territoriale dei meccanismi di controllo e repressione, che segnano la politica della «guerra globale permanente». Una contraddizione esplosiva vive nel mercato: da un lato si diffondono forme sempre più intense di consumo, dall’altro si alimenta una potenza del consumo che rompe le regole ferree del sistema. Per queste ragioni, il modello ideale di luogo del consumo è lo spazio sotto controllo del centro commerciale, un fortino dove regna la pace delle merci.

In questa rappresentazione dell’agire consumistico, sembra smarrirsi un ragionamento sulla qualità del consumo: una «potenza di desiderio» che non fa i conti con la «natura» e l’impatto sociale ed ecologico del consumo.

È un appunto senza dubbio pertinente, che ci interroga sulla ricerca di un equilibrio tra processi conflittuali di riappropriazione e qualità degli oggetti o dei servizi del consumo. È chiaro, però, che questo discorso è possibile solo in questa piccola parte di mondo occidentale, opulento e ricco.
Ma su questo nodo dovrebbe tornare in gioco la politica, intesa come governo del mercato; il problema che si pone, davanti ad una trasformazione radicale dell’economia, degli spazi pubblici di decisione, è che mancano gli strumenti, alla politica, per ridefinire gli effetti del mercato. Un discorso sulla qualità è possibile dentro la ripresa di un agire politico diverso: chi stabilisce la qualità? Come far sopravvivere una società dei consumi salvaguardando l’ambiente e i diritti del lavoro? Qual è la forza sociale che può imporre questi equilibri?

Non sembri avere molta fiducia nelle reti di produzione e distribuzione «sostenibili», che faticosamente provano a mettere in discussione l’idea stessa di «sviluppo»…

Ci credo assolutamente, e apprezzo tutti gli sforzi in questo senso. Ma vengo da una tradizione politica che intende la politica, sostanzialmente, come rapporti di forza. La «partecipazione» intesa come ideologia, senza espressione conflittuale, non sposta nessun equilibrio.
Casomai, occorre interrogarsi sulle forme del conflitto. Le reazioni assurde seguite all’azione «dimostrativa» fatta il 6 novembre, a Roma, alla libreria Feltrinelli, dimostrano che si è toccato il cuore del problema. Immaginate cosa accadrebbe se ci fosse una riproduzione diffusa [come in parte sta avvenendo] di queste forme di «riappropriazione» pubbliche? Si spiegano così, i foschi scenari evocati da Pisanu e soci.