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Quale verità per Aldo Bianzino?
Intervista a Patrizio Gonnella presidente dell’associazione Antigone |
Aldo, rinchiuso con l'accusa di coltivazione e detenzione di canapa
Indiana, avrebbe dovuto incontrare il 15 novembre il giudice titolare
dell'inchiesta per l'interrogatorio preliminare. Dal un primo referto,
redatto dal personale medico del carcere, le motivazioni del decesso sono
riconducibili a malattie cardiache. Ma successivamente, viene scoperto che
Aldo non è morto per cause accidentali, anzi. Il suo corpo presenta
evidenti segni di lesioni traumatiche.
Il fegato e la milza spezzate, quattro ematomi celebrali e due costole
fratturate. Il giudice Petrazzini, che conduce l'indagine su Aldo Bisanzio
per detenzione di droga, apre subito un'inchiesta per omicidio volontario.
Nel frattempo, il Comitato Verità e Giustizia per Aldo ha organizzato un sit-in davanti al carcere di Perugia sabato 10 novembre dalle 15,30. Abbiamo incontrato Patrizio Gonnella, presidente dell'Associazione Antigone.
Da questo episodio viene da domandarsi quali siano i metodi
praticati all'interno delle carceri. Un fatto che inevitabilmente apre il
capitolo sul trattamento dei detenuti. Come commenti l'epilogo di questa
vicenda?
«L’inchiesta aperta su Bianzino per omicidio è per adesso un’inchiesta
contro ignoti. Saranno le indagini a stabilire chi sono i responsabili.
Certo è che, comunque siano andate le cose, non è il solo omicida
materiale a essere coinvolto. Una quota di responsabilità è collettiva. Da
un lato, di una collettività rintracciabile nell’istituto e, dall’altro,
della collettività del sistema penitenziario.
Quanto alla prima, chiunque sia il colpevole ha potuto contare quanto meno
su comportamenti omissivi da parte di altri. Quanto alla seconda, io non
credo a responsabilità esclusivamente individuali, a singoli elementi
devianti di un sistema complesso come quello carcerario. Credo piuttosto a
un brodo di coltura dove matura la possibilità di certi comportamenti.
Se il messaggio che viene dato agli operatori penitenziari è quello di una
diffusa illegalità nel rispetto dei diritti dei detenuti, se la violenza
all’interno delle carceri è diffusamente tollerata e in qualche caso
perfino incitata, se il segnale lanciato centralmente è che lo spirito di
corpo è più importante della vita di un uomo, allora anche l’estrema
periferia, il singolo agente o il singolo medico penitenziario che
certifica il falso, potrà vivere il suo mandato secondo questa
ispirazione».
Esistono casi analoghi?
«Un episodio così cruento è difficile ritrovarlo nel passato. Ma le
inchieste per maltrattamenti nelle carceri sono decine e decine. Molte
finiscono nel nulla, altre vedono conferire promozioni di ruolo alle
persone coinvolte al fine di toglierle dal posto di lavoro originario.
L’inchiesta più colossale è quella su Sassari. Nel 2000, alla casa
circondariale di San Sebastiano, ci fu una pacifica protesta dei detenuti.
A seguito di ciò, l’amministrazione decise uno sfollamento generale verso
altri istituti sardi. Durante il trasferimento, circa trenta detenuti
furono brutalmente maltrattati, trascinati nudi per terra, presi a calci e
a pugni. Il processo di primo grado si concluse con pene ridicole».
La vostra Associazione, impegnata da anni su questo fronte come si
adopera per contrastare questo fenomeno?
«Nel 1998, Antigone ha creato un Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia. Siamo autorizzati dal Ministero della Giustizia a visitare periodicamente tutte le carceri del territorio nazionale. La filosofia dell’Osservatorio è proprio quella della prevenzione: più il carcere è visitato dalla società civile, più è reso luogo aperto all’esterno e non opaco, maggiore sarà la tutela delle persone che in esso vivono. Noi pubblichiamo ogni due anni un Rapporto sulle carceri nel quale raccontiamo anche tutti gli episodi di violenza che vi accadono, che denunciamo pure al Consiglio d’Europa. In casi particolari ci siamo costituiti parte civile nei processi». Lo Stato dovrebbe garantire l'incolumità del trattamento del carcerato. Le nostri leggi italiane cosa prevedono rispetto alla vita reale all'interno di un carcere? «Le leggi prevedono tante cose che non vengono rispettate. Ben sette anni fa, è entrato in vigore un nuovo regolamento penitenziario che prescriveva una serie cose rimaste inattuate. Erano norme di buon senso, che volevano andare nella direzione di considerare la pena non un periodo di tempo morto e inutilizzabile bensì un momento di reintegrazione sociale delle persone condannate. Un esempio tra tutti: venivano previsti mediatori culturali per gli stranieri, che costituiscono oltre il 30% della popolazione detenuta. Come pensare di ‘rieducare’, come dice la nostra Costituzione con un termine che non amo particolarmente, se neanche ci preoccupiamo di capirci linguisticamente? Quanto allo specifico della violenza, l’Italia sarebbe obbligata da accordi sovranazionali firmati e ratificati a prevedere il crimine specifico della tortura, quando la violenza è effettuata da qualcuno che non aveva bisogno di sequestrare la propria vittima per maltrattarla visto che già lo Stato gli attribuiva il compito di custodirla. Ma la legge che introdurrebbe questo reato nel nostro codice penale è ferma in Parlamento». La famiglia di Bianzino si costituirà parte civile. Tuttavia, l'episodio si è verificato all'interno di un istituto penitenziario. Un luogo per lo più sconosciuto dalla società civile. Nonostante ciò, credi si potrà fare chiarezza sull'episodio e rendere giustizia? «Credo che il caso Bianzino possa costituire uno spartiacque tra il prima e il dopo. Al Governo ci sono forze di centrosinistra, e il sottosegretario Luigi Manconi ha dichiarato che non permetterà che non si faccia luce su questa vicenda. Si ha oggi la possibilità di dare un segnale netto di inversione di tendenza: il carcere non è più un luogo separato, dove la violenza si può usare perché tanto all’esterno non viene notata. Della violenza carceraria si parla, su di essa si fanno inchieste portate fino in fondo, i suoi responsabili vengono identificati». |