Egregio sig. Veltroni come cittadino che vive e lavora a
Roma da oltre vent’anni, mi sento in dovere di richiamare la Sua attenzione su
alcuni comportamenti dei funzionari dell’Amministrazione che sono tali da
compromettere il rapporto fra cittadini e istituzioni. Martedì scorso, 30
ottobre, mi trovavo al campo rom di via dei Gordiani. Pareva una mattina come
le altre; poi è giunta una vettura dei vigili urbani, seguita da un’altra con
la scritta «S.O.S. – Autocentri Balduina». Ne sono scese due giovani
operatrici sociali. Da loro abbiamo appreso che era in atto uno sgombero.
Le auto continuavano ad arrivare, una dopo l’altra. Hanno fatto la loro
comparsa alcuni personaggi vestiti come rangers americani. L’atmosfera fra gli
uomini del Comune – guardie municipali, funzionari in borghese–si è fatta
effervescente. Cameratismo, pacche sulle spalle, risate e battute.
Le confesso, sig. Sindaco, di aver provato l’impressione di trovarmi sul set
di un remake casereccio di qualche film di Hollywood. La divisa dei rangers è
quella dei tiratori scelti che arrancano all’assalto di un grattacielo di
Chicago, in una scena dei «Blues brothers». Uno di loro ostentava una
maglietta con la scritta: FBI Special New York City Department (Le allego via
mail la foto, per Sua personale documentazione).
Osservavo incuriosito la scena, in silenzio. Ma i rangers hanno detto: chi non
abita qui se ne deve andare. In diversi anni di frequentazione del “campo”,
non era mai accaduto. Si entrava e si circolava liberamente, come in qualsiasi
angolo della città. Ma i rangers sostengono che quello non è un luogo come gli
altri. Un tale, che dice di essere il capo, si è messo a gridare: “Questo è un
luogo chiuso, un luogo chiuso… Portate la ruspa.” Il soggetto in questione
dichiara di avere poteri speciali, conferitigli direttamente da Lei. E i
vigili sembrano dargli retta, lo seguono come ultracorpi.
Un ragazzo mi ha mostrato un documento, consegnato dai vigili il giorno
precedente. È firmato da un dirigente del Comune di Roma, tale dott. Alvaro.
“La S. V. non è stata in grado di rispettare le norme che regolano la civile
convivenza tra gli ospiti del campo attrezzato di via dei Gordiani. I
comportamenti illeciti da Lei messi in atto escludono ogni possibilità di
considerare altre soluzioni che non quella dell’allontanamento dal campo di
tutto il suo nucleo familiare (…). Pertanto Lei è invitata a lasciare
immediatamente il campo liberando da persone e cose l’unità abitativa
precedentemente assegnatale.”
“Ospiti”, non cittadini. Liberare il container “da persone e cose”. La
punizione si abbatterà “su tutto il nucleo familiare”. Il documento del dott.
Alvaro ci svela che il “principio” della responsabilità collettiva, alla base
di tutte le rappresaglie fasciste, è l’assioma che ispira l’operato dei
rangers. Oltre agli altri poteri che Lei gli ha conferito, il capo dei rangers
deve avere anche quello di intercettare i pensieri. Mentre ho tra le mani il
documento del dott. Alvaro, si mette a urlare: “Voi non sapete nemmeno cosa
sono i fascisti!” Intravvedo la figura di Lazaro, uno degli anziani del campo.
Nel 1941, a Kragujevac, la città da cui provengono i rom di via dei Gordiani,
Lazaro era bambino. I nazisti lo misero di fronte a un plotone d’esecuzione,
con la famiglia. Furono trucidate migliaia di persone, quel giorno. Fra essi,
tutti gli allievi di un liceo. Kragujevac è città martire, in Jugoslavia. Ma
Lazaro non sa cosa sono i fascisti…
Tornando a noi, sig. Sindaco, converrà che la questione è controversa. Come
potremmo denominare un processo nel quale, per una categoria di persone
connotata “etnicamente”, le garanzie costituzionali vengono sospese e si
definisce uno spazio al cui interno i giudizi della magistratura e
l’esecuzione delle sentenze sono anticipati dalle gride del dott. Alvaro e
dallo sbrigativo intervento dei rangers?
Mentre vengo sospinto fuori dal campo, incrocio la ruspa. Si dirige verso il
container di Ghina. Ghina non c’è, è in ospedale. Di ragioni per stare male ne
ha parecchie.
Signor Sindaco, Lei conosce la sua storia. O almeno dovrebbe. Ghina è una
non-cittadina (ossia: abitante senza diritti). È nata in Italia e cresciuta a
Roma, dove ha vissuto e frequentato le scuole. Come accade a molti giovani
rom, a 18 anni non le è stata riconosciuta la cittadinanza italiana. Per non
rimanere in un limbo, per poter avere un documento di identità e un permesso
di soggiorno, Ghina ha richiesto il passaporto del paese dei genitori, la
Jugoslavia – un paese dove non aveva mai messo piede e del quale non parla la
lingua. In virtù delle normative sull’immigrazione attualmente in vigore (a
partire dalla Turco-Napolitano del ’98) per ottenere un permesso di soggiorno
è richiesto un impiego regolare. Per Ghina, come per molti altri rom,
adempiere a questo requisito si è rivelato impossibile. È scattata la
trappola: un passaporto fittizio le appiccicava l’etichetta di “straniera” e
si è ritrovata clandestina nel paese in cui era nata e cresciuta.
Per fortuna, la legge italiana impedisce l’espulsione di uno straniero che
conviva con un parente (entro il quarto grado) cittadino italiano. È il caso
di Ghina, che vive (o meglio viveva–prima dell’intervento dei rangers) con il
nipote Alex, cittadino italiano. Ghina è inespellibile, ai sensi di legge.
Eppure…
Lo Stato, che attraverso i suoi rappresentanti ci invita insistentemente al
rispetto della legalità, a volte mostra di infischiarsene–delle proprie leggi.
Un giorno di primavera di due anni fa, polizia e vigili urbani hanno prelevato
Ghina dal container che le era stato assegnato. Insieme ad altri ragazzi –
come lei nati e cresciuti in Italia – è stata rinchiusa nel Centro di
permanenza temporanea di Ponte Galeria. Dopo qualche giorno, Ghina è stata
scaricata dalle forze dell’ordine sulla pista dell’aeroporto di Belgrado.
Malata, senza un centesimo in tasca. Mentre portavano a termine la brillante
operazione, i funzionari di polizia non hanno dato peso a un dettaglio. Ghina
è una ragazza madre, sul suo passaporto era registrata la figlia Jessica, di
quattro anni. L’espulsione ha separato Jessica dalla madre, e la bimba è
rimasta sola, in Italia.
Nessuno (fra le autorità dello Stato e gli innumerevoli operatori di cui
dispone la Sua amministrazione, sig. Sindaco) si preoccupò di questo
trascurabile particolare.
Per fortuna esistono i nonni. La madre di Ghina, seriamente malata, decise di
prendersi cura della bambina.
Alcune persone (le stesse che i rangers hanno cacciato l’altro giorno dal
campo, per non avere testimoni) denunciarono l’accaduto. La Rai si interessò
alla questione, e in una trasmissione andata in onda in fascia di massimo
ascolto, l’allora dirigente dell’Ufficio Stranieri della Questura di Roma,
dott. Cardona, ammise che era stato compiuto un abuso, al quale andava posto
rimedio. Intervenendo in diretta, l’assessore alle politiche sociali del
Comune di Roma, Raffaella Milano, promise a Ghina il sostegno e la solidarietà
dell’Amministrazione comunale (la registrazione è a Sua disposizione, sig.
Sindaco, se ritenesse opportuno ascoltarla).
Come spesso accade, l’attenzione dei media non è durata a lungo. Le promesse
sono rimaste tali, e Ghina è rimasta in Serbia. Alcuni mesi più tardi,
incapace di reggere a un esilio ingiusto e all’ancor più ingiusta separazione
dalla figlia, Ghina è rientrata in Italia, clandestinamente. I due anni
successivi sono stati un incubo costante. Viveva chiusa nel container,
svegliandosi all’alba, con il terrore di un nuovo blitz della polizia e dei
vigili urbani. Poco più di un anno fa, i suoi amici le trovarono un avvocato.
In questo modo fu possibile far ricorso in Cassazione contro l’espulsione del
2005, e oggi Ghina (che non ha precedenti penali ed è imputata di un unico
reato, il rientro clandestino in Italia) è in attesa di giudizio.
Presentato il ricorso, Ghina si fece coraggio e provò a riprendere una
parvenza di “vita normale”. Curava il proprio aspetto, usciva per il
quartiere, si è trovata un fidanzato. Il ragazzo di Ghina era giovane come
lei. Anche lui rom, anche lui poverissimo. Anche lui clandestino in patria:
nato in Francia da genitori di origine serba e cresciuto a Roma, Paolo non era
stato registrato all’anagrafe. Un altro “cittadino invisibile” dell’Europa di
Shengen.
La primavera non porta fortuna a Ghina Marinkovic. Nel marzo di quest’anno,
due anni esatti dopo il blitz che si era concluso con la deportazione di
Ghina, Paolo è scomparso. I genitori lo hanno rivisto cadavere, all’Istituto
di medicina legale del Verano, una decina di giorni più tardi.
Quella mattina, era apparso sui giornali un comunicato del garante dei Diritti
delle Persone Private della Libertà del Comune di Roma, Gianfranco Spadaccia:
«Un rumeno, detenuto nel carcere di Regina Coeli, è morto questa notte per
cause imprecisate nell’ospedale Santo Spirito, dove era stato ricoverato con
urgenza nell’estremo tentativo di salvarlo. Il cittadino rumeno,
tossicodipendente, era detenuto per rapina, aveva numerosi precedenti penali
ed era sotto osservazione psichiatrica per aver incendiato in passato la
propria cella. Si trovava per questo in una cella dove era sorvegliato a
vista».
In tutto questo, l’unica cosa vera è che Paolo, a Regina Coeli, lo conoscevano
bene. Vi aveva trascorso alcuni anni, scontando un cumulo di condanne relative
a una serie di piccoli furti commessi da minorenne. Lo conoscevano a tal punto
da affidargli il ruolo di cuoco, nella cucina del carcere. E conoscevano
perfettamente i suoi problemi di salute, visto che, durante la detenzione, era
stato più volte operato per la grave patologia che lo affliggeva dalla nascita
e che lo ha costretto a oltre venti interventi chirurgici, per regolare la
valvola e il catetere che collegavano il suo cervello ai reni.
Allo stesso modo, non era un mistero l’origine di Paolo. Il magistrato che
dispone l’autopsia scrive a chiare lettere che Paolo è nato in Francia, 26
anni fa.
L’autopsia fu effettuata in fretta e furia, senza aspettare che venisse
notificato ai genitori il diritto di nominare un perito di fiducia, e il corpo
di Paolo fu inumato a Prima Porta a tempo di record. Salvo poi scoprire,
alcuni giorni dopo, che sulla lapide qualcuno aveva cambiato la data della
morte, anticipandola di un giorno.
Fra le tante balle date in pasto al pubblico attraverso il comunicato del
garante, c’è anche il fatto che Paolo sarebbe “morto per cause imprecisate
nell’ospedale Santo Spirito”. I referti parlano chiaro: al S. Spirito, Paolo è
giunto cadavere. Quell’imprecisione sull’ora del decesso (e sulla data della
morte, avvenuta il giorno prima di quello dichiarato ai parenti) pare fatta
apposta per sviare l’attenzione da eventuali responsabilità istituzionali
nella vicenda.
In tutto questo, non è chiaro il ruolo del garante dei Diritti delle Persone
Private della Libertà del Comune di Roma. Non c’è stata, infatti, nessuna
rettifica del vergognoso comunicato iniziale, e nessuno sforzo–a quanto è dato
sapere–per chiarire le ragioni che avevano indotto le autorità carcerarie a
fornire al garante informazioni fuorvianti. Eppure, su iniziativa degli amici
di Ghina, la stampa aveva sollevato la questione della strana fine di un
detenuto “invisibile”–espropriato, anche da morto, del diritto a un’identità
riconosciuta.
Qualche mese fa incontrai nuovamente l’assessore Raffaella Milano. Fu
all’Università, in un’assemblea a cui partecipavo insieme ad altri amici di
Ghina. Oltre a richiamare l’attenzione dell’assessore sulle singolari
circostanze della morte di Paolo Jovanovic, le consegnammo un dossier sulla
situazione di Ghina. Ci rispose sorridendo. Vedremo cosa possiamo fare.
Il 30 ottobre abbiamo visto cosa potete fare.
Signor Sindaco, una delle foto che Le allego ritrae una ruspa che distrugge il
container di Ghina. Quando uscirà dall’ospedale, questa ragazza non avrà più
un tetto che la ripari. Inoltre, dal momento che la ruspa ha raso al suolo
anche il container del nipote Alex, Ghina non potrà far appello alla sua
condizione di convivente con un congiunto italiano, al fine di ottenere un
permesso di soggiorno.
Quella ruspa, che ho incrociato mentre mi cacciavano dal campo, quella ruspa
che avanzava scortata da individui in uniforme in atteggiamento ilare e
scherzoso, mi ha richiamato alla mente una fotografia scattata 65 anni fa, in
un villaggio jugoslavo. Due militari italiani ridono, mettendosi in posa
davanti a una casa appena data alle fiamme. All’epoca, per questo genere di
rituali, si usava il fuoco. Oggi – Sharon docet – si preferisce il bulldozer.
Sebbene non possa vantare altrettanta esperienza, nel campo della semeiotica
fascista, di quella del capo dei rangers del Comune di Roma, mi pare indubbio
che fra i numerosi semi di intolleranza che si stanno allegramente spargendo
in questi giorni vada annoverata la distruzione esemplare del container di
Ghina. Che bisogno c’era di accanirsi su una ragazza malata e indifesa, i cui
diritti di cittadinanza non sono riconosciuti, i cui diritti umani vengono
sistematicamente calpestati?
Non La conosco personalmente, sig. Sindaco. Non ho ragione di mettere in
dubbio la Sua correttezza e la Sua sensibilità. Mi tornano in mente le parole
di un grande artista, Roberto Benigni, mentre dichiara che l’idea del film “La
vita è bella” è stata “del suo amico Walter Veltroni”. Accadeva qualche anno
fa.
Oggi, la crescita esponenziale delle ambizioni politiche del medesimo Walter
Veltroni si accompagna alle decine e decine di sgomberi e deportazioni di rom
che si succedono a Roma. Dal Campidoglio, si teorizza tranquillamente che “i
rom devono essere spostati al di fuori del raccordo anulare”. Inoltre, il
medesimo Walter Veltroni rivendica, il giorno in cui viene spianato il
container di Ghina, “tutta la responsabilità, storica, morale e politica” per
quell’azione. Che gli ultracorpi siano davvero calati in città?
Sig. Sindaco, non è bello vivere sapendo che per le strade si aggirano squadre
di rangers che si sostituiscono alle forze dell’ordine e alla magistratura e,
agendo in Suo nome, comminano punizioni esemplari a persone che non sono state
condannate per alcun reato.
A proposito di reati, qualche illegalità mi pare sia stata commessa, il 30
ottobre. A parte le automobili sequestrate perché non avevano il contrassegno
di assicurazione (ma non erano posteggiate in un “luogo chiuso”, dove non si
può circolare?), le ruspe del Comune hanno distrutto oggetti, documenti,
effetti personali di alcuni abitanti del campo (allego alcune foto che lo
comprovano).
Sono stati spianati diversi container, senza altra motivazione che “dare un
esempio”. Quei container erano in buone condizioni. Ammesso (e non concesso)
che i legittimi assegnatari fossero indegni di occuparli, potevano essere
usati per ospitare altre famiglie rom (funzionari e operatori del Comune sanno
bene che, a causa del naturale incremento demografico e dell’indisponibilità
di altre soluzioni abitative, i container di via dei Gordiani sono
cronicamente sovraffollati). Oltretutto, acquistare e installare i container
comportò una spesa considerevole; allo scopo di “mostrare i muscoli”, i
rangers hanno arrecato un danno cospicuo al pubblico demanio.
Mi è stato riferito che un ragazzo, a malapena maggiorenne, in precarie
condizioni di salute (un anno fa precipitò dal terzo piano di un edificio,
entrò in coma e venne operato alla testa), sarebbe stato malmenato nel corso
dell’operazione.
Infine, sono stati violati i diritti dell’infanzia (Le allego le foto dei
libri di scuola di Alex Amati fra le macerie del container in cui abitava).
A quanto pare, il 30 ottobre in via dei Gordiani è stata infranta in più punti
la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Nello specifico, mi pare
incontestabile che la persecuzione reiterata e continuata nei confronti di
Ghina Marinkovic configuri un’esplicita violazione dell’art.3 della
Convenzione, che vieta di sottoporre le persone “a trattamento disumano e
degradante”.
Sig. Sindaco, come cittadino indignato per questi fatti, e come testimone
dell’accaduto, mi permetto di ricordarLe che è Suo dovere istituzionale
intervenire con tempestività affinché le responsabilità vengano accertate, gli
eventuali colpevoli puniti e i danni (materiali e morali) adeguatamente
risarciti.
RingraziandoLa per la cortese attenzione, Le porgo distinti saluti
[5 Novembre 2007]
FONTE: http://www.carta.org/campagne/11752