Il Manifesto 12 febbraio 2008

La «trasgressione» del villaggio Bonifaci
A Tor di Quinto sta nascendo un quartiere che contraddice le norme urbanistiche. E che prende il nome del patron del Tempo

Paolo Berdini

Roma

 

No, non ci dovevano essere le case a Tor di Quinto. Lì intorno c'è una zona militare, una caserma dei carabinieri e una grande tenda da spettacoli. Un grande deserto: per trovare la città bisogna andare a ponte Milvio o prendere, come ha fatto la povera Giovanna Reggiani, il treno per piazza del Popolo. Anche il piano regolatore di Roma, proprio in considerazione dei caratteri dell'area, non aveva previsto che si potessero realizzare abitazioni: non si possono fare quartieri per la gente perbene in mezzo al deserto.
Ancora oggi a Tor di Quinto c'è soltanto un'anonima strada di periferia. Di giorno offre davanti ad un rivenditore di materiale edile il mercato delle braccia degli immigrati da impiegare in nero nei tanti cantieri di Roma. Almeno la mattina i romeni non fanno schifo. Di sera fa arrivare tanti anonimi spettatori del teatro. Di notte alimenta un degrado spaventoso.
Non ci dovevano essere le case lì. Ma siamo a Roma, la capitale della trasgressione urbanistica. Nella metà degli anni novanta la Marina militare iniziò a costruire quel quartiere in spregio alla normativa utilizzando una delle deroghe di cui abbonda la nostra legislazione. Servivano case per il personale del corpo, si disse. In ogni altro paese d'Europa le amministrazioni pubbliche avrebbero scelto insieme il luogo migliore per realizzarle, integrandole con aree con servizi, scuole, verde pubblico. Avrebbero tentato di fare una città. Da noi no. Si è convinti che un luogo vale un altro, l'importante è «fare». E non è un problema soltanto culturale: nella battaglia per costruire il quartiere della Marina entravano interessi economici giganteschi. Costruttori cui era stato affidato l'appalto, istituti di credito esposti in disinvolti finanziamenti.
Così, nonostante l'opposizione della regione, le case furono costruite. Ed eccole lì, isolate in un luogo sordido e inospitale. Un luogo in cui per tornare a casa non si percorrono strade illuminate su cui affacciano case e vetrine illuminate. Basta aver visto la piccola stazione di Tor di Quinto per comprendere cosa deve essere quel posto di notte. Comprendo l'obiezione che viene spontanea. Terribili atti di violenza si compiono anche in quartieri centrali, dall'Aventino come a piazza Vittorio. All'Alberone come a Primavalle. In luoghi dove la città, bella o brutta che sia, esiste.
Condivido l'obiezione, ma dobbiamo anche saper vedere le differenza enormi che esistono tra i due casi. Da sempre nelle città esistono devianza e fenomeni di violenza, spesso celati dietro le pareti domestiche. Fenomeni insiti nella vita quotidiana, fenomeni soggettivi in un certo senso indipendenti dai luoghi urbani. Ma esistono anche luoghi, e Tor di Quinto è tra questi, che sono in grado di alimentare per loro stessa natura le azioni di violenza tra gli uomini. Luoghi che non sono in grado oggettivamente di favorire socialità e integrazione. E a Tor di Quinto non c'è la città, c'è un deserto urbano.
E veniamo ad un'altra questione decisiva. Le città non sono immutabili e possono migliorare, a patto di averne intenzioni. Ad esempio, se si voleva recuperare le periferie romane si potevano fare operazioni di miglioramento semplici ed efficace. Si sarebbe potuto almeno collegare il piccolo quartiere della Marina con la stazione ferroviaria di Tor di Quinto con una strada diretta illuminata e asfaltata. E invece nulla. La strada in cui si è svolto l'atroce delitto è quella di cinquant'anni fa, nulla è cambiato. Anzi, tutto si è degradato perché si è continuato colpevolmente a consentire l'espansione infinita di Roma.
A poche centinaia di metri dal quartiere della Marina è sorto in questi mesi un enorme quartiere residenziale in mezzo ad un altro deserto urbano. Ha due lati a ridosso di una ripida collina, il terzo in adiacenza di un manufatto industriale e il quarto lungo la via Flaminia, e cioè un'autostrada urbana che provoca isolamento, rumore e inquinamento. E' stata insomma consentita la realizzazione di una ulteriore vergognosa speculazione immobiliare che non potrà diventare mai città, come il quartiere della Marina di Tor di Quinto. Il proprietario dell'area è Bonifaci, proprietario del quotidiano romano Il Tempo: a suo favore è stata compiuta l'ennesima forzatura delle regole urbanistiche. Gli stessi politici che invocano a piena voce il rispetto delle regole per gli immigrati non battono ciglio quando le regole vengono fatte a pezzi per favorire i potenti di turno. Così, mentre le città sono state consegnate alla speculazione edilizia, i quartieri della periferia peggiorano giorno dopo giorno le condizioni di vita. E mentre la città pubblica scompare, aumentano la paura e l'insicurezza sociale.
Fino a dieci anni fa, quando si è affermato il morbo delle privatizzazioni e delle dismissioni del comparto pubblico, le stazioni erano presidiate da personale che era comunque un elemento controllo sociale e di sicurezza. E oggi che la stazione di Tor di Quinto è stata abbandonata al peggior degrado, dobbiamo pure ascoltare gli stessi esponenti politici che hanno imposto il taglio della spesa pubblica invocare la sicurezza. Hanno contribuito a creare un incivile deserto sociale e impartiscono ancora lezioni sulla «sicurezza». Basterebbe ricordare loro che a pochi metri dal luogo del delitto c'è un presidio di vigilanza dei carabinieri attivo per 24 ore. Ma se non è visibile, se non è legato al contesto, se non diventa città, non serve a nulla. Servivano città vere, non sommatorie di vergognose speculazioni.

COMMENTO DI RODOLFO BOSI

 

 

 

 

 

 

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