La «trasgressione» del villaggio Bonifaci
A Tor di Quinto sta nascendo un quartiere
che contraddice le norme urbanistiche. E che prende il nome del patron del
TempoPaolo Berdini
No, non ci dovevano essere le case a Tor di Quinto. Lì
intorno c'è una zona militare, una caserma dei carabinieri e una grande
tenda da spettacoli. Un grande deserto: per trovare la città bisogna andare
a ponte Milvio o prendere, come ha fatto la povera Giovanna Reggiani, il
treno per piazza del Popolo. Anche il piano regolatore di Roma, proprio in
considerazione dei caratteri dell'area, non aveva previsto che si potessero
realizzare abitazioni: non si possono fare quartieri per la gente perbene in
mezzo al deserto.
Ancora oggi a Tor di Quinto c'è soltanto un'anonima strada di periferia. Di
giorno offre davanti ad un rivenditore di materiale edile il mercato delle
braccia degli immigrati da impiegare in nero nei tanti cantieri di Roma.
Almeno la mattina i romeni non fanno schifo. Di sera fa arrivare tanti
anonimi spettatori del teatro. Di notte alimenta un degrado spaventoso.
Non ci dovevano essere le case lì. Ma siamo a Roma, la capitale della
trasgressione urbanistica. Nella metà degli anni novanta la Marina militare
iniziò a costruire quel quartiere in spregio alla normativa utilizzando una
delle deroghe di cui abbonda la nostra legislazione. Servivano case per il
personale del corpo, si disse. In ogni altro paese d'Europa le
amministrazioni pubbliche avrebbero scelto insieme il luogo migliore per
realizzarle, integrandole con aree con servizi, scuole, verde pubblico.
Avrebbero tentato di fare una città. Da noi no. Si è convinti che un luogo
vale un altro, l'importante è «fare». E non è un problema soltanto
culturale: nella battaglia per costruire il quartiere della Marina entravano
interessi economici giganteschi. Costruttori cui era stato affidato
l'appalto, istituti di credito esposti in disinvolti finanziamenti.
Così, nonostante l'opposizione della regione, le case furono costruite. Ed
eccole lì, isolate in un luogo sordido e inospitale. Un luogo in cui per
tornare a casa non si percorrono strade illuminate su cui affacciano case e
vetrine illuminate. Basta aver visto la piccola stazione di Tor di Quinto
per comprendere cosa deve essere quel posto di notte. Comprendo l'obiezione
che viene spontanea. Terribili atti di violenza si compiono anche in
quartieri centrali, dall'Aventino come a piazza Vittorio. All'Alberone come
a Primavalle. In luoghi dove la città, bella o brutta che sia, esiste.
Condivido l'obiezione, ma dobbiamo anche saper vedere le differenza enormi
che esistono tra i due casi. Da sempre nelle città esistono devianza e
fenomeni di violenza, spesso celati dietro le pareti domestiche. Fenomeni
insiti nella vita quotidiana, fenomeni soggettivi in un certo senso
indipendenti dai luoghi urbani. Ma esistono anche luoghi, e Tor di Quinto è
tra questi, che sono in grado di alimentare per loro stessa natura le azioni
di violenza tra gli uomini. Luoghi che non sono in grado oggettivamente di
favorire socialità e integrazione. E a Tor di Quinto non c'è la città, c'è
un deserto urbano.
E veniamo ad un'altra questione decisiva. Le città non sono immutabili e
possono migliorare, a patto di averne intenzioni. Ad esempio, se si voleva
recuperare le periferie romane si potevano fare operazioni di miglioramento
semplici ed efficace. Si sarebbe potuto almeno collegare il piccolo
quartiere della Marina con la stazione ferroviaria di Tor di Quinto con una
strada diretta illuminata e asfaltata. E invece nulla. La strada in cui si è
svolto l'atroce delitto è quella di cinquant'anni fa, nulla è cambiato.
Anzi, tutto si è degradato perché si è continuato colpevolmente a consentire
l'espansione infinita di Roma.
A poche centinaia di metri dal quartiere della Marina è sorto in questi mesi
un enorme quartiere residenziale in mezzo ad un altro deserto urbano. Ha due
lati a ridosso di una ripida collina, il terzo in adiacenza di un manufatto
industriale e il quarto lungo la via Flaminia, e cioè un'autostrada urbana
che provoca isolamento, rumore e inquinamento. E' stata insomma consentita
la realizzazione di una ulteriore vergognosa speculazione immobiliare che
non potrà diventare mai città, come il quartiere della Marina di Tor di
Quinto. Il proprietario dell'area è Bonifaci, proprietario del quotidiano
romano Il Tempo: a suo favore è stata compiuta l'ennesima forzatura delle
regole urbanistiche. Gli stessi politici che invocano a piena voce il
rispetto delle regole per gli immigrati non battono ciglio quando le regole
vengono fatte a pezzi per favorire i potenti di turno. Così, mentre le città
sono state consegnate alla speculazione edilizia, i quartieri della
periferia peggiorano giorno dopo giorno le condizioni di vita. E mentre la
città pubblica scompare, aumentano la paura e l'insicurezza sociale.
Fino a dieci anni fa, quando si è affermato il morbo delle privatizzazioni e
delle dismissioni del comparto pubblico, le stazioni erano presidiate da
personale che era comunque un elemento controllo sociale e di sicurezza. E
oggi che la stazione di Tor di Quinto è stata abbandonata al peggior
degrado, dobbiamo pure ascoltare gli stessi esponenti politici che hanno
imposto il taglio della spesa pubblica invocare la sicurezza. Hanno
contribuito a creare un incivile deserto sociale e impartiscono ancora
lezioni sulla «sicurezza». Basterebbe ricordare loro che a pochi metri dal
luogo del delitto c'è un presidio di vigilanza dei carabinieri attivo per 24
ore. Ma se non è visibile, se non è legato al contesto, se non diventa
città, non serve a nulla. Servivano città vere, non sommatorie di vergognose
speculazioni.