Da ALIAS del 13/1/07
BANLIEUES - LE RAGAZZE DELLA RIVOLTA
di Emilio Quadrelli
PARIGI Le Blanc Mesnilin,
fine novembre 2005, ore 16. Improvvisamente da una curva non particolarmente
agevole sbuca a tutta velocità una Bmw ultimo modello grigio metallizzato.
La curva è impegnativa e la velocità sostenuta non aiuta, l'autista sembra
perderne il controllo. La parte posteriore dell'auto comincia a girarsi per dare
vita al più classico dei testa-coda. L'incidente appare inevitabile.
Con non poca bravura e freddezza il conducente, con un colpo di controsterzo
opportuno e dato al momento giusto, riprende il controllo dell'auto e la conduce
in una stradina secondaria. Mentre il rumore della frenata è ancora nell'aria,
il passeggero seduto al suo fianco salta velocemente fuori dall'abitacolo e,
impugnando a due mani una pistola di grosso calibro, dall'aspetto una Browing
bifilare calibro 9 parabellum, prende di mira la strada.
Subito dopo l'autista scende e i due si dileguano per una delle
strade adiacenti.
Dopo pochi secondi sopraggiungono tre auto della polizia che, alla vista della
Bmw ferma, iniziano a far stridere i freni. I più rapidi, mentre le auto
sono ancora in corsa, saltano giù e armi alla mano la circondano. Ma tutto
risulta inutile, nell'auto non c'è più nessuno. Imprecando si lanciano nelle
vie circostanti in cerca dei fuggiaschi.
Ben presto recedono, la caccia non ha avuto buon esito.
Tutto questo potrebbe sembrare poco interessante, una normale «storia sbagliata»
come avrebbe detto De André, se i fuggitivi, con non poca sorpresa,
in realtà non fossero due donne e per di più velate. Due ragazze dall'aspetto
molto giovane, vestite con anfibi militari, jeans, felpe e giubbotto
ma con il velo.
Nello stesso periodo, mentre gran parte dei «quartieri popolari» francesi
andavano in fiamme, parti non secondarie della cosiddetta società civile
«scoprivano» improvvisamente la deprecabile condizione in cui le donne, a causa
del machismo dilagante in banlieue, erano costrette a vivere.
Donne sottoposte ad ogni forma di brutalità e vessazioni da parte dei maschi
banlieuesards i quali, in preda a perenni eccessi testosteronici, usavano
nei loro confronti gli stessi riguardi riservati alle automobili.
Ciò che continuamente emergeva era un ruolo totalmente
subordinato delle donne di banlieues.
Una retorica che sembra avere convinto i più, ritenendo persino inutile tentare
un qualche approccio empirico alla questione. È parso pertanto
il caso di scendere in strada per vedere se le sentenze emesse dagli abitanti
della «piccola Parigi» avessero un qualche riscontro tra gli abitanti
delle periferie e, pur con i limiti che un piccolo e modesto reportage
inevitabilmente comporta, a uscirne è stato un quadro decisamente diverso.
Nelle vicende dell'autunno francese, in realtà, le donne un qualche ruolo e non
sempre secondario lo hanno avuto. Del resto, chiunque conosca
minimamente come si svolge la vita economica e sociale in banlieue sa che il
peso delle donne nella gestione concreta della vita quotidiana è addirittura
strategico.
Certo, è un ruolo che poco o nulla ha a che vedere con i dibattiti che appassionano la società legittima o gli ambiti degli woman's studies.
«Quote rosa» e «pari
opportunità» alle donne di banlieues non dicono molto così come le loro
«affinità elettive»hanno ben poco a che spartire
con le riflessioni teoriche di Judith Revel ma, piuttosto, sembrano avere non
poche cose in comune con le pratiche di Assata Shakur ma proprio
per questo una ricerca on the road al suo interno è risultata tutt'altro che
priva di interesse.
Il viaggio ha inizio con l'incontro di
M. B. e il suo nutrito e agguerrito gruppo di donne black.
Lei, in particolare, è politicamente attiva, e non da
ieri, nei «quartieri popolari» e nel corso della rivolta ha svolto un ruolo di
«direzione» non proprio secondario.
Significativamente, ottenendo l'approvazione di tutto il gruppo, non accetta
un'intervista incentrata sulla «questione femminile» ma gioca questa,
pur riconoscendone una certa «particolarità», nell'insieme della «questione
banlieue».
Secondo le opinioni maggiormente
diffuse, le donne in banlieue vivono una condizione priva di qualunque
visibilità e del tutto estranea a qualunque forma di partecipazione alla vita
pubblica e ancor meno ai suoi aspetti decisionali ma,parlando con te e il vostro
gruppo, le cose sembrano essere diverse.
Che ruolo hanno avuto, allora, le donne
nel corso degli eventi dello scorso autunno francese?
Un ruolo spesso importante ma, prima
di parlare di questo, è necessario parlare di ciò che è stato il movimento di
lotta dell'autunno scorso. Prendere le attività delle donne e scorporarle
da tutto ciò che è accaduto è un modo per minare l'unità che, non senza fatica e
fino a un certo punto, si è venuta a determinare
nel corso della lotta tra le varie anime della banlieue. Sulle donne di banlieue
si sono spese fin troppe parole anche se, questo è il ridicolo della
situazione, nessuna di coloro che ha scritto su di noi ha portato il suo
prezioso culo qua dentro.
Per questo ritengo che la
prima cosa di cui bisogna parlare sono gli obiettivi messi al centro della
rivolta e non farsi intrappolare all'interno di un terreno che non è il nostro.
Di questi, parlo degli obiettivi attaccati, nei vari organi d'informazione non
vi è traccia.
Quello che è stato, aggiungerei volutamente e con gran pace di tutti, mostrato,
è l'aspetto irrazionale della rivolta.
Invece le cose sono andate in modo diverso. Si è parlato tanto delle auto
incendiate come se quelle fossero l'unico obiettivo, in realtà i principali
obiettivi presi di mira erano altri, la polizia e i commissariati ovviamente, e
di questo un po' si è detto, anche perché quando si è cominciato a parlare
di una regia della criminalità, per il resto inesistente, parlare dell'assalto
ai commissariati poteva far comodo per sostenere questa tesi. Ma non è
stata solo la polizia a essere attaccata. I Centri del lavoro in affitto e non
poche strutture e proprietà del lavoro nero, e in alcuni casi anche alcuni suoi
degni rappresentanti, sono stati attaccati non meno dei commissariati.
A farlo sono state soprattutto donne.
Di questo sulla stampa e nelle televisioni non vi è traccia. Puntare
l'attenzione su tutto ciò è importante perché, visto che in tanti sembrano
interessati alla condizione delle donne in banlieues, hanno molto a che vedere
con le donne.
Perché?
Cosa sono i Centri del lavoro in affitto lo sanno tutti. Sono quelli che
regolano l'accesso al mercato del lavoro a tempo e a condizioni vantaggiose per
le aziende. Sono anche organizzazioni di ricatto e controllo sociale, politico e
sindacale, perché se sei una o uno che organizza la lotta e il conflitto
sul posto di lavoro, o in ogni caso sei una che non si fa mettere i piedi
addosso, sei fatta fuori. Puoi stare sicura che, per te, molto difficilmente
ci sarà un nuovo contratto. Finisci tra gli indesiderabili e non lavori più.
I Centri sono tra le principali armi messe a punto dal capitalismo per rendere
innocui i lavoratori e le sue parti più deboli e ricattabili, cioè le
donne. Ecco perché c'è un legame strettissimo tra la ristrutturazione del lavoro
capitalista e la nostra condizione di donne lavoratrici. Quindi i luoghi
dello sfruttamento sono stati tra gli obiettivi principali del movimento e sono
state proprio le donne ad aver maggiormente focalizzato l'attenzione
su questi aspetti. Se vogliamo parlare di differenze di genere nel corso della
lotta, dobbiamo dire che gli uomini guardavano con maggiore interesse
i commissariati, le donne tutto ciò che aveva a che fare con la produzione.
Questo è anche facile da capire perché i maschi subiscono più la pressione dei
flics, noi quella dei capi e dei padroni.
Quindi, avete individuato nella
produzione la contraddizione principale. Puoi raccontare qualcosa su come vi
siete mosse e su come avete scelto gli
obiettivi da colpire?
Oltre ai Centri non sono state poche le strutture produttive, quelle che usano
esclusivamente lavoro nero e semi coatto, che sono andate in cenere.
La maggior parte di queste sfruttano, attraverso la parcellizzazione del lavoro,
soprattutto il lavoro femminile.
Un lavoro a cottimo che si svolge all'interno delle case. Oppure, altro caso non
infrequente, adattando a laboratorio magazzini e scantinati dove le
donne lavorano quasi come in un campo di concentramento, in condizioni prive di
qualunque sicurezza, senza areazione, con orari di lavoro
mai inferiori alle dieci ore, sotto il controllo di capi violenti, maneschi e
arroganti.
Alcuni gruppi di donne, e questo te lo posso garantire perché ho contribuito a
organizzarne alcuni, mentre nelle strade era in corso la battaglia
ha regolato i suoi conti con i propri padroni e guardiani. Quando non è stato
possibile attaccare i magazzini, abbiamo ripiegato sulle auto
o sulle abitazioni. Qualche caid è andato incontro anche a incidenti. Qualche
osso si è rotto è non è stato certo il nostro.
Questo dovrebbe dare un quadro almeno un po' diverso della rivolta e soprattutto
del ruolo per nulla subordinato o addirittura invisibile che le
donne vi hanno giocato. Ma non è questo, mi sembra, la cosa che va maggiormente
messa in risalto. Mi sembra più importante invece parlare
del silenzio che, a partire dagli stessi partiti e movimenti di sinistra, c'è
stato su questo. Il fatto che la rivolta abbiamesso al centro, o tra gli
obiettivi più importanti, la critica all'organizzazione capitalistica del lavoro
e questo sia passato del tutto inosservato,dice molte cose. Dice, ad esempio,
che il lavoro per una parte della società è una cosa completamente diversa che
per l'altra. Si tratta di due mondi che parlano lingue diverse dove, per gli
uni, vi sono opportunità e possibilità mentre per gli altri una rigida
subordinazione, dominazione e ricatto.
La vera questione è che oggi il mondo è cambiato radicalmente nella sua base
materiale e strutturale, con ricadute molto grosse.
È come se esistessero due mondi, abitati da specie diverse. E questi due mondi,
per quello che mi riesce vedere, non sono separati semplicemente
com'era anche in passato, dalla diversa posizione occupata all'interno della
scala sociale ma che rimandava a un modello sociale unico, bensì
dall'appartenenza a due realtà il cui colore è il bianco e il nero. Forse per
questo la critica all'organizzazione capitalistica del lavoro è estranea a gran
parte della sinistra perché, in fin dei conti, è un'organizzazione bianca,
quindi anche la loro. È questa organizzazione che determina la condizione
della donna in banlieue.
IL VIAGGIO CONTINUA
Quello che emerge
dalle parole di M.B. è una divisione del mondo che non sembra lasciare spazio a
possibili mediazioni.
Il racconto di G. Z., una
giovane black/blanc che per un certo periodo ha fatto parte di alcuni movimenti
e associazioni della «sinistra bianca e rispettabile», sembra ampiamente
confermarlo.
Tu sei tornata a lavorare politicamente
in banlieue dopo un'esperienza in altri ambiti. Perché?
Nel corso degli anni Novanta
il lavoro politico e sociale all'interno della banlieue ha subito una notevole
frammentazione.
Questo è stato soprattutto la conseguenza di alcune trasformazioni generali che
hanno avuto notevoli ricadute nei nostri territori delle
quali solo in seguito si è iniziato a prendere coscienza. All'interno delle aree
che avevano portato avanti l'intervento in banlieue, si è sviluppato il
dibattito sull'esigenza di un rapporto maggiore con i vari mondi politici.
In poche parole si è posto il problema se rimanere in banlieue, per portare
avanti in maniera autonoma un discorso completamente incentrato sulla
specificità dei nostri territori, oppure portare la banlieue all'interno del
discorso politico più generale. Una buona parte di noi ha scelto questa seconda
ipotesi. Anche se molte delle critiche che erano state avanzate alle esperienze
politico - istituzionale continuavamo a considerarle in gran parte
valide, l'assenza di sbocchi che il nostro lavoro autonomo ormai evidenziava, ci
ha portato a riconsiderare in maniera diversa il rapporto con
alcune realtà che si stavano mettendo in movimento. In molti, pertanto, abbiamo
deciso di cercare una sponda fuori dalla banlieue. Un'esperienza
che, per me, è stata particolarmente deludente ma che mi è anche servita per
capire molte cose sul mondo di oggi, il tipo di contraddizioni che si sono
aperte e la loro natura. Perché c'è qualcosa di molto diverso rispetto al
passato.
In che cosa consistono, sulla base delle
tue esperienze, maggiormente queste differenze?
Vedi, la vecchia
contrapposizione,
tra chi aveva aderito ai progetti della sinistra istituzionale e chi invece
aveva optato per una strada diversa, non era altro che una contrapposizione
tra chi seguiva un'ipotesi chiamiamola realista e riformista e chi non
rinunciava alla messa in cantiere di un progetto più critico e radicale.
Le infinite discussioni, le banalizzo un po', erano sui modi, i metodi, i tempi.
Tutto questo, almeno formalmente sembrava essere una discussione
tra persone che vogliono andare nella stessa direzione, che perseguono gli
stessi obiettivi ma sono in disaccordo su quale strada seguire.
Bene, oggi questo orizzonte comune non esiste nemmeno più sulla carta.
Se prima, tra noi e loro, la differenza era politica oggi credo che sia
possibile parlare di una differenza che nasce su tutt'altri presupposti.
Il problema non è su come si
interviene e si sta in banlieue ma essere o meno un banlieuesards.
Mi spiego con un esempio che rende immediatamente chiaro la cosa.
In passato, essere un abitante della banlieue, finiva per essere una specie di
valore aggiunto. All'interno dei mondi della politica riformista, essere
un banlieuesard, poteva essere un buon viatico per far carriera. Certo, dovevi
rimanere dentro ad alcuni schemi è ovvio, ma una volta dentro
il gioco l'essere un banlieuesard poteva essere quasi un vantaggio.
In che senso?
Per certa sinistra c'era
quasi il mito dell'abitante della periferia. Non pochi hanno utilizzato il loro
status originario
per accedere a, seppur piccole, carriere. Addirittura accentuavano, quasi in
maniera parossistica, alcuni tratti da banliuesard. Il banlieuesard
era un oggetto di culto, coccolato e ambito. Il banlieuesard era visto come il
buon selvaggio, il grado zero ma puro della classe, i suoi comportamenti
poco perbenisti e rozzi, negli immaginari degli intellettuali e degli
appartenenti alla classe media della sinistra, soddisfacevano il loro bisogno di
incontrare il popolo e il rappresentante del popolo aveva tante più chance di
affermarsi rimanendo, almeno in gran parte, popolo e comportandosi
come la borghesia progressista immaginava dovesse essere uno del popolo. Si può,
a ragione, obiettare sulla poca dignità personale di un individuo che si presta,
al limite del buffonesco, a impersonare la maschera del popolano che la
borghesia progressista immagina ma questo è un altro discorso.
Ovviamente io non ho mai accettato di essere la popolana e sono sempre stata
molto critica verso questi comportamenti ma non è certo per valorizzarli
che tiho raccontato queste cose. L'ho fatto per mettere in evidenza come, per
tutto un periodo e con tutte le contraddizioni che c'erano, l'essere
un abitante della banlieue non era socialmente disprezzabile. Sia chiaro, non
sto difendendo quel modello sto semplicemente dicendo che
la banliue non era invisibile ma, semmai, soffriva di un eccesso di visibilità
sociale. Per tutti, mostrare un banlieuesard che tale rimaneva cioè
urbanizzato ma non troppo, questo come vedrai è l'aspetto fondamentale,era il
classico fiore all'occhiello.
Non solo. Il banlieuesard diventava, in qualche modo, oggetto di culto se, in
lui, si poteva esemplificare l'intera banlieue. Un banliuesard come individuo
non aveva alcun senso, e quindi in quanto tale non poteva neppure pensare di
avere un qualche successo o affermazione, ma doveva essere
sempre l'espressione, il rappresentante della banlieue.
Per questo doveva, in ogni occasione, pubblica ma anche privata, mantenere un
certo modo di essere e di fare. In questo gioco tutto girava intorno
alla rappresentanza, a ciò che uno finiva con il personificare. Per quanto in
maniera distorto c'era, per la società, un riconoscimento di un intero
corpo e blocco sociale. Il popolo, mettiamola così, aveva pieno diritto a
esistere e a manifestarsi. Chi ha fatto un po' di carriera l'ha fatta
giocando su questo.
E invece adesso?
Tutto questo che ti ho detto mi serve per raccontarti invece quello che accade
oggi che è esattamente l'opposto ed è quanto ho potuto
concretamente sperimentare in prima persona. Se alcuni come me, a un certo
punto, hanno deciso di interrompere quel tipo di
esperienza, tornando a fare intervento in banlieue, altri sono rimasti a
lavorare in alcune realtà. Anche questi hanno fatto, per piccola
che possa essere, un po' di carriera. Ma l'hanno fatta assumendo comportamenti e
atteggiamenti esattamente opposti a quelli
che li avevano preceduti. In poche parole se prima esisteva il mito positivo del
banliuesard, in quanto popolo, oggi questo mito si è
rovesciato in pura negatività, il banliuesard non è più la personificazione del
popolo ma della teppa, dello sfigato, dell'invisibile,
del premoderno, del presociale, dell'emarginato, del preglobale o non so più che
cosa. In ogni caso è qualcosa che non può essere
rappresentato ma deve essere reso invisibile.
Questo cosa comporta?
Allora succede che per essere accettato devi mostrare, fino
all'eccesso,
di esserti lasciato completamente alle spalle, di aver reciso ogni cordone
ombelicale con il tuo passato, con le tue origini.
Devi morire come banliuesard e rinascere come individuo. Questo è
un gioco al quale alcuni si sono prestati. Ora tutta la loro vita è un
continuo cancellare tutto ciò che sono stati. Si vergognano delle loro origini,
non mettono praticamente più piede in banlieue e
quando parlano di noi dicono: quelli là. Il loro comportamento è tipico di tutti
i rinnegati. Forse più di altri ci considerano pure escrescenze e nullità
sociali.
Tutto questo ti dice molto su come delle cose siano cambiate.
La periferia non rappresenta più un mondo, una realtà con la quale il centro
deve fare i conti ma l'ignoto.
Quello che ha detto Sarkozy, ovvero che noi siamo un semplice problema di karcher,di pulizia, stringi, stringi è un po' quello che pensano tutti anche se poi non tutti arrivano alle sue stesse conclusioni operative.
Ma che cos'è alla fine la banlieue se non il luogo dove è maggiormente concentrato il lavoro basso, più mal pagato e meno appetibile?
Che cos'è la banlieue se non il luogo dove più alto e intenso è lo sfruttamento?
In banlieue vivono milioni di persone e la favola che le banlieues siano improduttive, parassitarie, completamente assistite non sta in piedi.
Vorrebbe dire che in Francia ci sono milioni di persone che non producono ricchezza e profitto e dove starebbero, invece, quelli che la producono?
In quali quartieri abitano? Dove sono?
È vero, le statistiche indicano nella
banlieue il luogo dove è maggiormente concentrata la disoccupazione ma è una
verità parziale.
In realtà, la banlieue, è il luogo dove è maggiormente concentrato il lavoro
deregolamentato per cui, il vero paradosso, è che non c'è nessuno che lavora
tanto quanto chi è ufficialmente disoccupato.
Questo, inoltre, è particolarmente vero se guardiamo alla popolazione femminile
sulle cui spalle, in non pochi casi, regge l'intera economia
familiare. Ma questo è il punto.
La banlieue è il luogo dove è concentrata quella fetta di lavoro che, nelle
società attuali, non ha più alcuna legittimità e riconoscimento sociale.
Il mito che in un'epoca neppure troppo distante in molti
nutrivano verso il popolo della banlieue rimandava al riconoscimento
politico e sociale che il lavoro operaio e proletario aveva nella società. Oggi
è questo a non avere più alcun riconoscimento anzi a essere
oggetto di pregiudizio e stigmatizzazione.
L'isolamento della banlieue, in realtà, è l'esatta fotografia delle condizioni
in cui è precipitato il lavoro che non fa figo. (G. Z.)
IN DIVISA
L'attenzione e le
riflessioni delle donne di banlieue ci restituiscono un quadro dei «quartieri
popolari» francesi
ben distante da quello a cui media, mondi politici e gran parte
dell'intellighenzia abitualmente ci offrono.
Non solo l'intero movimento dei banlieuesards si mostra molto meno «impolitico»
di quanto la società legittima abbia cercato di mostrare ma le
donne,o per lo meno una parte significativa di loro, sembrano ben distanti
dall'incarnare e accettare un ruolo mesto e subordinato al «potere maschile».
Anzi, per certi versi,
sembrano proprio loro ad aver colto con non poca lucidità il «cuore» della
contraddizione individuando nelle trasformazioni
che hanno attraversato l'organizzazione capitalistica del lavoro il nodo
centrale del problema. Ma le donne, o perlomeno alcune di loro,
sembrano avere avuto ruoli non secondari anche all'interno della «questione
militare» aspetto che, secondo le retoriche maggiormente accreditate
sulle donne di banlieue ha a dir poco dell'incredibile. Di tutto questo ne offre
un'esauriente ricostruzione Z.,una giovane francese black della
banlieue di Argenteuil, che ha lavorato a fondo in questo settore.
Hai avuto un ruolo importante nell'organizzare e gestire alcuni ambiti «militari» nel corso della rivolta.
Puoi descrivere, almeno per sommi capi, i problemi che hai dovuto affrontare?
Intanto bisogna spiegare un po' di cose,altrimenti si finisce con
l'avere un'idea molto falsificata. Noi, ma è una cosa che credo succeda sempre,
abbiamo dovuto organizzare la guerriglia combattendo su due fronti: uno esterno,
uno interno. Quello interno,per certi versi, è stato quasi
più importante dell'altro. Gli sbirri per colpire con una certa precisione
devono ricevere delle informazioni ma non solo. In non pochi casi hanno
hanno anche bisogno di trovarsi il terreno spianato. Avere, per esempio, persone
che mettono in giro informazioni sbagliate al tuo interno, per loro,
può essere fondamentale perché ti induce a muoverti esattamente nella direzione
che loro vogliono. Allo stesso modo ricevere informazioni su dove intendi
colpire, oppure attraverso quali percorsi intendi raggiungere un obiettivo,
attaccarlo e sganciarti, per loro sono informazioni essenziali.
Un'altra cosa importante è ricevere informazioni sui livelli di organizzazione
raggiunti al nostro interno.
Infine, dovendosi muovere in un territorio praticamente sterminato come il
nostro, diventa decisivo scoprire e individuare quali e dove sono i
nostri rifugi e il nostro logistico. Un lavoro che può essere fatto solo
disponendo di una buona rete di spie e informatori all'interno dei nostri
territori.
Poi, ma questo è un problema che si è posto in un secondo momento, abbiamo
dovuto misurarci con alcuni tentativi da parte dei fascisti di costruire dei
gruppi di contro guerriglia dentro la banlieue. Questa, così come siamo stati in
grado di ricostruirla, è stata un'iniziativa più ufficiosa
che ufficiale. È partita autonomamente da alcuni ambienti di estrema destra
della polizia nei confronti dei quali il potere ufficiale ha fatto finta
di niente. Se funzionavano bene, altrimenti lui non c'entrava. Le classiche
operazioni sporche che se riescono bene, altrimenti nessuno ne sa
niente. Ma questo, come ti dicevo, è avvenuto in un secondo momento e forse è
stato anche il problema minore.
Il vero problema è stato neutralizzare la rete di spie e informatori il che,
come è forse facilmente intuibile, non è assolutamente una questione
diciamo tecnica.
Quindi, ha comportato la messa a punto di una struttura organizzativa in grado
di stanare spie e infiltrati.
Un lavoro
non facile che comporta, per chi se ne assume l'onere, capacità di varia natura
e, soprattutto, una stima e un riconoscimento sociale non indifferente?
Sì, credo che il modo come mi hai posto la domanda sia quello giusto. Per
fronteggiare una rete di quel tipo è occorso soprattutto la messa a punto di
una struttura in grado di fare una serie di mosse. Ma forse è meglio portare
degli esempi piuttosto che affrontare la questione in modo troppo astratto.
La prima cosa da fare è stata socializzare l'infinita serie di informazioni di
cui, in maniera frammentata, eravamo comunque in possesso.
Questo è stato il primo
passaggio e non è stato un semplice passaggio tecnico. Per arrivare a questo si
è dovuto rompere con la logica di setta che sia le gang
sia alcuni gruppi si portavano dietro.
C'è stata la tendenza da parte di molti a porsi continuamente come gruppo
autonomo, separato dagli altri che, al massimo, poteva allearsi con altri ma
senza perdere la propria identità.
Questa è palesemente una cazzata perché in questo modo non si fa altro che fare
il gioco del nemico che ha tutto l'interesse a tenerci divisi. Certo,
unirsi non è una cosa che si può fare semplicemente sommando le varie realtà
come se nulla fosse ma occorre delineare un ipotesi collettiva nella
quale, le diverse esperienze, si possono riconoscere. Accanto a questo, che è il
problema di contenitore generale, ne compare un altro non meno
importante. In realtà la resistenza a unirsi e a mettere insieme le forze, non
dipendeva solo da ipotetiche differenze ma dalla resistenza che i piccoli
leader o boss ponevano perché, in quel modo, vedevano venir meno il loro micro
potere. Il processo di costruzione di una struttura rivoluzionaria,
se vuole essere tale, non può esimersi dal mettere in discussione anche ciò che
avviene al tuo interno, mettendo in luce quanto le logiche
del dominio e del potere hanno fatto presa anche tra coloro che sono pronti a
battersi contro i dominatori.
Quindi, a partire da un problema apparentemente tecnico, si sono dovuti
affrontare dei nodi molto più complessi che hanno posto molti di fronte
alle loro contraddizioni obbligandoli, però, a dover compiere delle scelte. Un
processo utile perché ha consentito di fare chiarezza dentro
al movimento facendogli compiere un salto in avanti.
Dentro tutto questo, il tuo essere
donna, ha comportato dei problemi?
Alcuni. Il problema va posto sotto due aspetti. Il primo rimanda al fatto che,
abitualmente, gli scontri di strada sono fatti da uomini e ragazzi mentre le
donne ne rimangono per lo più fuori. Questo porta molti a pensare che ogni
questione che ha a che fare con l'uso della forza sia monopolio dei maschi.
Sarebbe però sbagliato vedere in questo una contrapposizione tra donne e uomini
perché il vero problema è un altro e ha a che fare direttamente con la
dimensione politica. Il problema non è la forza o la violenza in quanto tale ma
l'organizzazione e la gestione politica della forza. Questo cambia completamente
la cornice in cui l'esercizio della forza e la sua organizzazione vengono posti.
Quello che si è dovuto far capire è che la gestione della lotta che stavamo
conducendo non poteva assumere le stesse dinamiche degli abituali conflitti
di strada.
Si è trattato, e in parte
siamo stati in grado di farlo, di trasformare e far evolvere una situazione per
indirizzarla
verso un modello operativo molto diverso da quello abituale. A questo punto il
conflitto tra uomo e donna ha potuto essere smussato perché
il problema reale diventava chi era in grado di essere direzione di questo
questo processo. Il confronto è avvenuto sulle qualità politiche, militari e
operative dei singoli piuttosto che sull'appartenenza di genere. Se, in molti,
hanno riconosciuto a me e ad altre questo ruolo direttivo lo hanno fatto
sulla base della stima sociale che, nei fatti, ci siamo conquistate. Questo è
quanto accaduto in generale. Poi ci sono state situazioni di tensione
che avevano però una natura diversa. Alcuni capi gang sono stati contro di noi,
e lì lo scontro a un certo punto lo abbiamo dovuto affrontare
senza mezze misure, perché non volevano perdere la loro posizione di piccoli
signori della guerra.
Allora, in quel caso, si è trattato di sputtanarli davanti ai loro gruppi
mostrandoli palesemente incapaci di svolgere un ruolo che era ampiamente
più grande di loro.
Quindi, alla fine, in alcuni casi alle
donne è stato riconosciuto un ruolo non solo legittimo ma decisionale e
dirigenziale?
Sì ma questo perché noi abbiamo sempre posto la questione sul terreno della
prassi politica. Non abbiamo detto: noi siamo donne e quindi ci
spetta questo o quello. Abbiamo dimostrato di essere in grado di organizzare e
gestire un percorso politico con alcune ricadute militari e su quel
terreno ci siamo confrontate. Non ci siamo messe a fare discussioni infinite che
non avrebbero portato a nulla ma abbiamo messo al centro la questione
della prassi.
Non butti giù dal piedistallo un piccolo boss andandogli a parlare in astratto
di diritti ma lo sbatti a terra e lo calpesti mettendolo di fronte alle sue
responsabilità e alla palese incapacità di far fronte a una situazione che ha
perso del tutto la dimensione del micro conflitto urbano. Quando il problema
diventa fronteggiare lo Stato e non una qualche gang rivale il gioco assume
contorni che lui neppure riesce a intuire. A quel punto sei tu che hai in mano
la situazione.
Torniamo a parlare delle spie di come
avete affrontato il problema.
Il problema vero erano gli spioni non conosciuti e insospettabili. Questi erano
dentro di noi e non sono certo quelli che se ne vanno in giro con la
coccarda francese. Come saprai, una parte dell'economia della banlieue è fatta
di micro traffici ed è intorno a questi che le Bac reclutano la maggior
parte degli infiltrati. Perché è lì che trovano quelli più facilmente
ricattabili.
Allora lì si è trattato di fare una serie di inchieste al nostro interno che non
sono state sempre facili anche perché, in una situazione simile,
accadeva che qualcuno, per risolversi delle questioni personali, dei vecchi
rancori o anche cose molto più stupide, mirava a screditare altri
bollandoli come spie.
Un lavoro non sempre facile e che, in alcuni casi, ci ha portato a commettere
degli errori mettendo sotto accusa persone che, poi, si sono rivelate
completamente trasparenti.
Ma questo ti dà anche l'idea di come, nel momento in cui scendi sul terreno
dello scontro reale, della prassi e non ti limiti alle chiacchiere, come
ama fare la sinistra parigina dentro i salotti, gli scenari con i quali ti devi
misurare siano tutt'altro che semplici e che, in definitiva, la guerra impari a
farla solo facendola.
Infine il tentativo di colpire il movimento dall'interno con i gruppi para
militari. Un'operazione che non ha avuto molto successo perché i tentativi
tentativi che ci sono stati li abbiamo stroncati sul nascere.
Intanto bisogna dire che in banlieue c'è una forte propaganda razzista,
principalmente anti araba, come del resto tutti sanno l'arabofobia è una cosa
molto diffusa in Francia, che è portata avanti dai gruppi di destra legati a Le
Pen i quali, in banlieue, hanno una certa forza, e che possono contare su
appoggi e coperture sostanziose da parte delle Bac. Il rapporto tra Bac e gruppi
nazisti è molto stretto e per certi versi sono la stessa cosa. Solo che gli uni
sono legalizzati e gli altri ancora no.
Questi gruppi para militari sono stati utilizzati in due modi. Il primo è stato
quello legale che hanno visto tutti grazie alla televisione e ai giornali. Erano
i sedicenti cittadini che tutti correvano a intervistare e a riprendere grazie
ad accordi ben precisi presi dalla polizia con gli organi di stampa e
informazione.
In quel caso, i lepennisti, si mostravano come i bravi cittadini, facendo
intendere di rappresentare la maggioranza della popolazione della banlieue che
chiedeva il ripristino della legalità, dell'ordine e la repressione della
rivolta. Come abbiamo saputo interrogando a lungo uno degli organizzatori di
questa messa in scena volutamente, i toni tenuti nelle riprese e nelle
interviste, erano improntate alla moderazione e a quello che comunemente si
definisce il buon senso del cittadino medio. Erano tutti discorsi contro la
violenza e che tendevano a mostrare la presa di distanza da parte della
popolazione dagli incendiari con il chiaro intento di far apparire la guerriglia
opera di gruppi assolutamente minoritari che non avevano alcuna legittimazione
all'interno.
Una volta sbandierata ai quattro venti questa versione, diventava molto facile
andare giù pesante nella repressione.
C'è stata, e questo ti dà anche un'idea della sostanziale unità che i vari
poteri hanno raggiunto per contrapporsi a noi, una vera e propria
propaganda di guerra da parte dei media e degli organi di informazione nei
nostri confronti. Giornali e televisioni non facevano altro che riportare
interviste ad abitanti delle banlieues che si dicevano stanchi di quanto stava
accadendo. Questa, nelle loro intenzioni, doveva essere l'inizio
di un'operazione a più ampio raggio che, in un secondo momento, doveva far
entrare in gioco i gruppi paramilitari camuffati da cittadini che
si mobilitavano per ristabilire l'ordine.
Prima è partita la propaganda che doveva preparare il terreno di consenso, poi
sarebbero entrati in azione questi gruppi.
Il progetto, però, non ha funzionato per almeno due motivi. Il primo è stato il
tempestivo intervento delle forze militanti che hanno azzerato, attraverso
una serie di azioni mirate, tutti o almeno gran parte delle basi che i
paramilitari stavano approntando dentro le banlieues facendo, tra l'altro,un
discreto bottino.
Molte cose, molti strumenti
che dovevano servire alla controrivoluzione sono passati nel logistico della
guerriglia.
Probabilmente le Bac si saranno incazzate non poco! (Z.)
MINORANZA CONSAPEVOLE
Alla fine del viaggio, l'immagine della donna di banlieue ne esce non poco
diversa da quella che la società perbene e rispettabile si è continuamente
affannata a fornirci. Le banlieuesards non solo sembrano perfettamente in grado
di prendere la parola in pubblico ma lo fanno con una lucidità e
una consapevolezza che difficilmente trova riscontri analoghi tra la popolazione
di genere maschile.
Certo, queste donne, sono pur sempre una «minoranza» ma non è questo il
problema. Centrale, piuttosto, è il grado e il livello di legittimità
e autorevolezza sociale che queste «minoranze» possono vantare.
Del resto, sembra il caso di ricordarlo, a prendere la Bastiglia secondo Adolphe
Thiers non furono in più di settecento.