DA IL MANIFESTO 12 OTTOBRE 2006
«655.000 morti
in Iraq»
Michelangelo Cocco
Uno studio della rivista Lancet imbarazza
la Casa Bianca: dall'inizio della guerra 655mila vittime, il 31% per azioni di
militari occidentali. Bush: non sono cifre credibili. E il parlamento di Baghdad
sancisce la divisione del Paese.
Da mesi le cronache di giornali e televisioni riferiscono con macabra monotonia
di una sessantina di morti quotidiane in Iraq. Le cifre rese note ieri da uno
studio statunitense rivelano tuttavia una realtà che va ben oltre la somma di
quei sessanta cadaveri a gliorno, diventati una costante dopo le violenze
interconfessionali seguite alla distruzione, nel febbraio scorso, della moschea
sciita di Samarra. Secondo l'indagine, che sarà pubblicata oggi sulla rivista
scientifica Lancet, dal marzo 2003 - quando le truppe angloamericane invasero la
Mesopotamia - in Iraq si sono registrati 655 mila decessi in in più rispetto a
quelli stimati in base al tasso di mortalità pre-invasione.
Si tratta di una cifra di oltre dieci volte superiore a quella dell'associazione
indipendente «Iraq body count» che, sulla base delle notizie fornite dagli
organi d'informazione, parla di un numero di vittime civili compreso tra 44.000
e 49.000.
Numeri quelli di Lancet che chiamano in causa direttamente il governo
statunitense anche perché, secondo la ricerca, il 31% dei morti sarebbero stati
causati direttamente dalle azioni degli eserciti che, guidati da quello a stelle
e strisce, occupano il Paese da tre anni e mezzo. L'Amministrazione repubblicana
è stata costretta a intervenire subito sulla questione. Nel dicembre dell'anno
scorso George W. Bush aveva dichiarato che i morti in Iraq sarebbero stati
«circa 30.000». Nel corso di una conferenza stampa alla Casa Bianca ieri il
presidente statunitense ha attaccato quella che ha definito la «metodologia
screditata» della ricerca. Poi però ha aggiunto: «So che molte persone innocenti
sono morte e ciò mi addolora. Applaudo gli iracheni per il loro coraggio di
fronte alla violenza». Anche il governo di Baghdad - che, come gli occupanti
statunitensi, ha necessità di raccontare che le cose non sono poi così tragiche
- non ha apprezzato i risultati dello studio. «Il rapporto non è credibile - ha
dichiarato alla Reuters il portavoce Ali al-Dabbagh -. Questi numeri sono
esagerati e non precisi».
L'indagine è stata condotta secondo criteri scientifici: sono stati messi a
confronto i tassi di mortalità (pre e post invasione americana) di 47 aree
dell'Iraq. Il totale delle vittime del conflitto non si basa su dati forniti
dagli obitori ed è notevolmente più alto di quello ottenuto sommando il numero
di decessi riportati quotidianamente dai mass media. «Lo scenario presentato
rispecchia quello previsto sempre su Lancet in un articolo dell'ottobre 2004»,
ha dichiarato Gilbert Burnham, che ha coordinato il nuovo lavoro per la Johns
Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora. Burnham sostiene che il
nuovo studio, portato avanti assieme all'equipe di Al Mustansiriya
dell'Università di Baghdad, conferma quei dati. Gli esperti hanno confrontato il
numero di decessi per cause violente e non violente prima del conflitto (Gennaio
2002-Marzo 2003) e dopo il conflitto, dal marzo 2003 al giugno 2006. Dai dati
raccolti sono risultati 1.474 nascite ma ben 629 morti tra le 12.801 persone
coinvolte nella ricerca. Inoltre l'87% dei decessi registrati riguardavano il
periodo post-invasione. «Estendendo questi dati alla popolazione irachena -
spiega Burnham - emerge una stima di 654.965 decessi in più avvenuti in Iraq tra
Marzo 2003 e Giugno 2006 rispetto alle stime riferibili al tasso di mortalità
pre-conflitto»; ben il 91.8% di questi decessi sarebbero stati causati da atti
violenti, principalmente colpi d'arma da fuoco o esplosioni.
E nell'Iraq sconvolta dagli scontri tra sciiti e sunniti ieri si è verificato un
evento che potrebbe inasprire ulteriormente quella che ormai sempre più analisti
e commentatori chiamano apertamente guerra civile. Il parlamento di Baghdad ha
approvato la legge che da il via libera alla divisione del paese in tre aree:
una curda nel nord, una sunnita al centro e una sciita al sud. Il provvedimento
ha ottenuto l'appoggio della maggior parte dei partiti sciiti che sperano
d'impossessarsi delle ricchezze petrolifere del sud che ricadrebbero nella loro
area. I deputati del partito del giovane clerico Muqtada al Sadr si sono
astenuti, il Fronte per l'accordo iracheno - la maggiore coalizione di
raggruppamenti sunniti - ha boicottato la seduta. Ci vorrà ancora del tempo - il
mese scorso sciiti e sunniti si sono accordati per far entrare in vigore il
provvedimento solo tra 18 mesi - ma se e quando dovesse essere attuato (con il
petrolio concentrato nelle nove province sciite e in quelle curde a nord)
segnerebbe di fatto la fine dello Stato unitario conosciuto finora come Iraq.