da Carta.org

Città abbandonate

Laura Ciarmela 22 maggio 2007

 

C' è un'apparente confusione nel sottotitolo che accompagna il libro «La città abbandonata» presentato il 21 maggio nella sede romana della Caritas e curato da Mauro Magatti, preside della facoltà di sociologia dell'Università Cattolica di Milano, in collaborazione, appunto con la Caritas italiana. Recita infatti: «Dove sono e come cambiano le periferie italiane». Ad essere abbandonata è dunque solo una parte della città, ovvero la periferia? O è tutta la città che includendole le accompagnano anche in questo destino di esclusione?
 

La spiegazione l'ha offerta lo stesso Magatti quando ha detto che tutta la ricerca focalizza la sua attenzione sulla vita urbana contemporanea [genere di ricerca che non veniva effettuata da decenni] oltre che sulle periferie in quanto si è certamente ad un punto di svolta che bisogna analizzare e sul quale è necessario operare immediatamente «altrimenti ci saranno pezzi di città che non sappiamo come chiamare».
 

Dieci sono le aree prese in considerazione: cinque periferie in senso classico frutto della pianificazione urbana degli ani '50 e '60 [Begato di Genova, San Paolo a Bari, Librino a Catania, Zen Palermo Scampia a Napoli] e cinque aree che hanno alle spalle un passato di integrazione ma che oggi si stano trasformando in quartieri difficili [Esquilino a Roma, ex zona 13 a Milano, Isolotto-Torri Cintoia a Firenze, Navile a Bologna, Barriera di Milano a Torino].

Altri quattro sono i punti che Magatti ha indicato come linee guida del progetto.
Il primo è la non omogeneità di tale aree che genera spesso conflitti assai diversificati. Un primo esempio è quello tra anziani e giovani. Ma non mancano quelle con e tra migranti. E c'è poi quello che si genera tra coloro che vivono e lavorano nel quartiere e coloro per i quali esso rappresenta un «quartiere dormitorio» e che niente vogliono avere a che fare con i problemi che vi nascono.
 

C'è quindi il problema della povertà. E non si tratta più, spiegano i ricercatori, solo di povertà materiale. Il problema più grande che accompagna queste periferie è più che altro la povertà sociale. Nascere in un certo quartiere genera effettivamente delle difficoltà concrete come scegliere una buona scuola o avere servizi che aiutino a vivere il resto della città. Ciò che il libro denuncia è quindi una capacità relazionale che viene meno, sempre più velocemente e drasticamente.
 

Tutto ciò è poi acuito da un indebolimento delle condizioni istituzionali. Come ci si può spostare da un certo quartiere con 800 euro in busta paga? è ciò che si legge in alcune interviste libere all'interno del volume. E questo genera ciò che i sociologi definiscono un effetto collaterale, ovvero un senso di imprigionamento.
E non è solo frutto di questo senso di imprigionamento la violenza che, spesso, è l'unico dato che interessa ed emerge nelle cronache.
Violenza che a sua volta si articola almeno in tre forme: quella che si sostituisce allo stato di diritto creando un ordine violento appunto. Ma c'è anche, una violenza di tipo anomica o nichilista che non è generata da una organizzazione mafiosa, ma è una violenza senza senso che spesso crea ancora più sgomento perchè non si sa da chi difendersi. C'è infine la violenza con forte valore simbolico come il vandalismo nelle scuole.
 

Tutti questi elementi insieme innescano quindi quella che Magatti e i suoi collaboratori definiscono la spirale dell'abbandono. Ma come si genera questo nuovo male oscuro che rischia di portare le nostre città a conflitti davvero ingestibili?
La spirale dell'abbandono segue due percorsi. Il primo è quello del punto di vista soggettivo di chi, in certi quartieri, ci vive e che, come si diceva prima, si sente imprigionato sentendo inoltre «l'irrilevanza dei propri mondi vitali rispetto ai contemporanei». Il secondo è l'abbandono esterno che si traduce in indifferenza e indisponibilità verso chi abita in una zona svantaggiata della città.
«Ma il ban- dire intere zone della città significa accettare», si legge ancora nella ricerca, «di creare dei ban-diti» [i ricercatori fanno anche notare la radice comune presente anche nella parola abbandono].
Per fortuna, ha sottolineato Magatti, le parrocchie, le associazioni e persino le scuole resistono ancora e in parte riescono ancora a ridurne gli effetti.
 

Che cosa può lo Stato per bloccare la spirale dell'abbandono?
Il ministro Paolo Ferrero nel suo intervento ha ricordato che «aAbbiamo un livello di civiltà che è frutto di una storia passata che stiamo consumando ma che non stiamo riproducendo». I tradizionali luoghi di associazionismo sono in restringimento e lo Stato non fa nulla per favorirne una ripresa. Riscrivere l'agenda politica è quindi una necessità impellente, specie considerano la scissione tra popolazione civile e mondo politico. Anche qui, infatti, c'è una sostanziale distanza tra chi fa politica per risolvere esclusivamente i propri problemi e si tiene lontano dalla vita della gente comune.
Il ministro ha indicato l'America Latina come l'esempio più evidente di una importante ripresa culturale dal basso che certamente in Italia non sarà possibile senza uno sviluppo universalistico e non particolaristico del welfare. Ed è questo che ha generato, ha detto Ferrero, la polemica sul tesoretto. «Perchè altrimenti passerebbe sempre l'idea che quando c'è da stringere la cinghia tutti devono partecipare, ma quando qualche soldo c'è, certe realtà passano sempre in secondo piano».
E rispetto ai piani sulla sicurezza come si pone? è stato chiesto a Ferrero. «Non si tratta solo di repressione, ma certamente non bastano, sono stato invece molto disponibile ad aprire un tavolo di lavoro con i sindaci dopo la lettera di Veltroni sul patto per il welfare».