Giocare col fuoco
Quanto avvenuto in Italia in questa
maledetta settimana di Ognissanti non ha paragone con nessun altro paese
civile. Che un crimine, per orrendo che sia - e l'assassinio di Giovanna
Reggiani lo è -, produca come reazione la ritorsione collettiva, in alto e
in basso, nelle istituzioni e nella società, contro un intero gruppo etnico
e un'intera popolazione, è fuori da ogni criterio di civiltà, giuridica e
umana. Che la colpa «personale» dell'autore del crimine venga fatta pagare
sulla pelle di migliaia di donne, uomini, bambini, già costretti a vivere in
condizioni di indigenza estrema, è cosa che non può non sollevare un senso
di desolazione e disgusto.
Le immagini delle ruspe immediatamente entrate in azione per spianare gli
«insediamenti abusivi» e ostentate in tutti i telegiornali, le irruzioni un
po' in tutta Italia nei «campi nomadi», le identificazioni di massa e le
prime espulsioni annunziate trionfalmente da prefetti e giornali, come se
tra quel crimine e quelle persone scacciate senza tanti complimenti
esistesse un nesso diretto, fino all'aggressione di Tor Bella Monaca,
evocano scenari inquietanti, d'altri luoghi e di altri tempi. Alludono a una
bolla di odio, di ostilità, di paura aggressiva gonfiatasi sotto la
superficie patinata della nostra quotidianità, che personalmente mi
terrorizza.
Sgonfiare quella «bolla calda» di rancore ed emotività, neutralizzarne i
veleni, dovrebbe essere il compito di tutti noi. Di chiunque lavori davvero
a una condizione di «sicurezza collettiva». Soprattutto della politica, nel
suo senso più nobile, come organizzazione della coabitazione pacifica nella
città (della «bella politica», come ama chiamarla Veltroni). E invece la
politica, da cura del male si trasforma oggi in fattore di contagio.
Anziché neutralizzarlo, finisce per reclutare l'odio. Per quotarlo alla
propria borsa, come risorsa capace di assicurare il consenso prodotto dalla
paura. Nel caso specifico ha incominciato Gianfranco Fini, perfettamente
coerente in questo con il suo passato fascista, occupando il terreno del
crimine. Dichiarandone con la sua sola presenza il carattere «politico».
Facendone oggetto di contesa politica. Ma gli altri, purtroppo, non si sono
tirati indietro. L'hanno seguito a testa bassa, in rapida successione,
governo e sindaco di Roma, forse pensando così di contendergli lo spazio. Di
parare il colpo, in una rincorsa sciagurata. Di fatto contribuendo ad
alimentare quella bolla, a legittimarne implicitamente gli umori lividi. A
sdoganare l'ostilità preconcetta. Né ci si può stupire se, dietro le ruspe
del comune, qualcuno penserà di fare da sé, di «dare una mano», sgomberando
a colpi di spranga qualche baracca. O bruciandone qualcuna. O eliminando, a
coltellate, qualche «abusivo» dell'umanità.
Stiamo veramente giocando col fuoco. La possibilità di evocare mostri che
poi non si sapranno controllare è spaventosamente reale. Io ho paura. Non lo
nego. Vorrei che chi ha oggi il potere della parola e dell'amministrazione,
ci riflettesse. Seriamente. Fuori dalla nevrosi mediatica e dall'urgenza di
piacere. Pensando, per una volta, a un futuro che vada oltre il prossimo
sondaggio.
Il Manifesto 4 novembre 2007