I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa
di Pippo Fava
Quello che segue è un indimenticabile articolo pubblicato originariamente
nella rivista "I Siciliani", n. 1, nel gennaio 1983. Un anno dopo Giuseppe Fava
fu assassinato dalla mafia
Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa essi
effettivamente siano, protagonisti, comparse o semplicemente innocui e
spaventati spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare
la nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia
negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i
politici. E per meglio intendere tutto bisogna prima capire e identificare le
prede della mafia nel nostro tempo. Una breve storia, terribile e però mai
annoiante, poiché continuamente vedremo balzare innanzi, come su un’immensa
ribalta, tutti i personaggi. Ognuno a recitare se stesso (Pirandello è qui di
casa) nel gioco delle parti. Negli anni ottanta le prede della mafia si
dividono in due categorie perfettamente separate che trovano punti di contatto
soltanto in alcune fatali complicità organizzative. L’una categoria raggruppa
tutte le tradizionali vocazioni criminali volte al taglieggiamento
dell’economia, i cosiddetti "racket", che controllano quasi tutte le attività
economiche di una grande città: i mercati generali; le concessionarie di
prodotti industriali, auto, elettrodomestici, televisori; negozi, teatri,
alberghi, night; e su ogni attività impongono una taglia, una specie di tassa
che l’operatore economico è costretto a pagare se non vuole correre il rischio
di vede bruciare la propria azienda, o vedersi sciancato da alcune
revolverate. In taluni casi d’essere ucciso. Si tratta di un giro di centinaia
o migliaia di miliardi, però frantumati e dispersi in un’infinità di rivoli e
canali. Un apparato mafioso che lentamente, inesorabilmente ha risalito la
penisola inquinando anche le grandi città del nord, oramai da anni anch’esse
violentate da sparatorie, stragi, violenze dalle quali emergono sempre volti e
nomi di criminali emigrati dalla Sicilia, da Napoli, dalla Calabria. E’ la
mafia cosiddetta dei manovali, senza vertici, continuamente sconvolta da una
battaglia interna per il predominio in un quartiere o un settore. Basta che un
racket tenti di invadere il territorio di un altro, o cerchi di imporre
estorsioni in un diverso settore economico, e lo scontro è fatale. Sempre
mortale. Dura sei mesi, un anno, una fiamma di odio che insanguina un
quartiere, a volte percorre anche il territorio della nazione da una grande
città all’altra, Catania, Napoli, Milano, Torino, laddove i rackets in lotta
cercano disperatamente alleanze e armi, spesso tra consanguinei, amici,
parenti, fratelli. Una caratteristica di questa mafia è infatti la presenza
costante della famiglia, cioè del rapporto di parentela fra molti membri dello
stesso clan. Un giudice milanese ebbe a dire, forse senza nemmeno voler essere
cinico: "Una buona famiglia meridionale all’antica, in cui sono ancora molto
forti i sentimenti tradizionali della famiglia, può costruire un racket
mafioso di tutto rispetto. E’ più temuta!". Questo spiega anche talune
agghiaccianti efferatezze dello scontro, vittime legate piedi e collo con un
filo elettrico in modo che lo sventurato lentamente si autostrangoli, organi
genitali resecati e infilati in bocca, teste mozzate e depositate dinnanzi
all’uscio di casa. Una crudeltà che scaturisce dall’odio definitivo di chi ha
visto cadere per mano avversa il padre, il figlio, il fratello. Lo scontro non
ha possibilità di pace, di armistizio, nemmeno di compromesso e spesso dura
mortalmente fino al fatale annientamento del clan avverso, dovunque abbia
trovato scampo lo sconfitto o il superstite. La vendetta lo perseguiterà fino
nella più profonda cella di carcere. E’ la mafia che miete la quasi totalità
delle vittime, centinaia, forse migliaia ogni anno in tutte le città della
Sicilia e dell’Italia. Quasi tutte le vittime sono anch’esse creature
criminali, o loro complici, talvolta anche avvocati, medici, funzionari,
insospettabili burocrati o professionisti che in un modo o nell’altro si sono
lasciati adescare e sottomettere da un racket mafioso. Al momento in cui quel
racket entra in guerra cadono anche le loro teste. E’ una malia che sembra
animata da una tragica vocazione al suicidio e tuttavia continuamente si
rinnova, una specie di fetida tenia oramai intanato nel ventre della nazione,
dove si ingrassa, ininterrottamente divora se stesso e ricresce.
Sociologicamente sarebbe forse più esatto definirlo gangsterismo ma, come ora
vedremo, esso è però, mortalmente, indissolubilmente legato, proprio in un
rapporto fra manovalanza e ingegneria, al grande fenomeno mafioso. E qui c’è
il salto di qualità, diremmo di cultura criminale, fra le prede mafiose
tradizionali di base, mercati, estorsioni, sequestri di persona e le nuove
grandi prede che caratterizzano gli anni ottanta ed hanno fatto della mafia
una autentica tragedia politica nazionale. Esse sono essenzialmente due: il
denaro pubblico e la droga. Il distacco è vertiginoso. E’ come se un grande
corpo, un grande animale, lo Stato italiano, mai morto e continuamente in
agonia, fosse divorato ancora da vivo. In basso c’è un brulicare orrendo di
vermi insanguinati, in alto un rapace con il profilo misterioso e terribile
dei mostri di Bosch, e gli artigli piantati nel cuore della vittima. Non
riesco a trovare un paragone più amabile ed egualmente preciso. La droga
anzitutto. Essa costituisce uno degli affari mondiali, come il petrolio o il
mercato delle armi. La valutazione globale degli interessi che la droga
coinvolge si può fare solo nell’ordine di decine di migliaia di miliardi. La
contaminazione del vizio oramai è intercontinentale, dall’Asia all’Africa,
all’Europa, alle due Americhe. I guadagni sono incalcolabili. Si calcola che
ci siano al mondo circa cento milioni di persone, molte oramai
tossicodipendenti, che fanno quotidianamente uso della droga, spendendo
ciascuna in media (ma la valutazione forse è troppo esigua) circa diecimila
lire al giorno. Sono mille miliardi. Quasi quattrocentomila miliardi l’anno.
Una cifra che fa paura. Molto più alta del bilancio di una grande nazione
industriale. I guadagni sono anch’essi incalcolabili. Secondo gli studi
attuali un quantitativo di cocaina, acquistata alle fonti di produzione per
poco più di un milione, dopo la raffinazione può valere sul mercato da due a
tre miliardi, secondo la purezza del prodotto. E non basta la semplice e pur
stupefacente valutazione economica per capire appieno la imponenza del
fenomeno-droga su scala mondiale, un evento quotidiano che minaccia di
deformare la società contemporanea. Ogni anno centomila esseri umani, per lo
più giovani o addirittura adolescenti e ragazzi, muoiono per causa della
droga; almeno nove o dieci milioni diventano irrecuperabili alla vita sociale,
sia per la loro definitiva incapacità intellettuale o inettitudine fisica al
lavoro, sia per la loro costante pericolosità, cioè la disponibilità a
qualsiasi proposta criminale. Milioni di famiglie vengono praticamente
distrutte poiché quasi sempre, accanto alla pietosa tragedia del ragazzo
drogato, c’è la infelicità di un intero gruppo umano, i genitori, i fratelli,
la moglie, per i quali il recupero -spesso impossibile- del congiunto diventa
una costante di dolore e disperazione. La droga ha ammorbato oramai anche
alcune istituzioni fondamentali della nostra società, la scuola, lo sport, le
carceri, gli ospedali, che si stanno trasformando in luogo di autentico
contagio. Punti fermi della grande struttura civile collettiva vengono così
destabilizzati, ed è tutta la struttura che comincia a vacillare. La stessa
lotta quotidiana a livello internazionale contro la droga, esige un prezzo che
diventa sempre più insostenibile; migliaia di giornate lavorative perdute,
migliaia di uomini, magistrati, studiosi, poliziotti, medici, mobilitati
costantemente per arginare l’avanzata della droga; migliaia di miliardi spesi,
talvolta sperperati, per tenere in vita ospedali, centri di emergenza,
istituti e cliniche di recupero umano e sociale. E su tutto questo oceano,
sporco e insanguinato di denaro, che scorre ininterrottamente da un continente
all’altro, l’ombra invulnerabile della mafia. Da dieci anni la mafia tiene nel
pugno l’immenso affare. Dapprima nelle grandi capitali del mercato, che erano
soprattutto Beirut, Il Cairo, Istambul, la grande plaga del Medioriente,
Marsiglia, New York, e ora definitivamente anche in Sicilia. L’isola è nel
cuore del Mediterraneo e quindi passaggio obbligato per il cinquanta per cento
dei traffici dall’area afroasiatica verso le grandi nazioni dell’occidente.
Per qualche tempo in Sicilia la mafia si è limitata a controllare questo
passaggio, garantendo punti di approdo e reimbarco, sicurezza e rapidità in
qualsiasi operazione ed esigendo in cambio una tangente. La Fiat fabbrica
automobili e le affida ai concessionari: ebbene la mafia pretende una tangente
dai concessionari perché possano svolgere il lavoro senza rischi, ma la mafia
non si sogna di sostituirsi alla Fiat per fabbricare automobili. Per anni,
incredibilmente, la mafia si comportò allo stesso modo per la droga. Guardava,
osservava, valutava, studiava, proteggeva, copriva, incassava la sua tangente,
faceva i conti, cercava di capire perfettamente l’ingranaggio. Forse c’era una
residua repugnanza morale (siamo in Sicilia dove ogni paradosso psicologico è
possibile) verso un affare che era portatore di morte e dolore per un’infinità
di esseri umani, soprattutto giovani. Ma anche senza complicità mafiosa la
droga avrebbe viaggiato lo stesso per tutta la terra. E alla fine i calcoli
furono perfetti e abbaglianti, e l’ultima repugnanza venne vinta. La mafia
assunse in proprio il traffico, anche in Sicilia, e lo fece alla sua maniera,
eliminando qualsiasi concorrente e aggiudicandosi tutto il ciclo completo di
mercato: la ricerca alle fonti di produzione, la creazione di stabilimenti
segreti per la raffinazione della droga e la spedizione nelle grandi capitali
dell’occidente. In quell’attimo compì un salto di cultura criminale che
avrebbe fatto tremare l’Italia. Migliaia, decine di migliaia di miliardi, una
montagna, un fiume travolgente, una tempesta, un mare di denaro che arriva da
tutte le parti, che si rinnova e cresce continuamente. Via via perfezionandosi
negli anni, mettendo radici sempre più profonde, integrando gradualmente e
infine totalmente anche camorra napoletana e ’ndrangheta calabrese,
coinvolgendo definitivamente una massa di uomini sempre più vasta, la mafia ha
creato una struttura criminale che, per le sue proporzioni e per il suo
distacco da quella che è la logica comune, appare quasi un congegno di
fantascienza. In verità molte componenti di questa struttura si sono
determinate quasi per forza di cose, per la concatenazione fatale di un gioco
d’interessi, ma c’è voluta indubbiamente una grande capacità di fantasia per
intuire questa forza delle cose e questa concatenazione d’interessi e
costruirle insieme in un perfetto mosaico. Va detto che la mafia del nostro
tempo ha genio. Anche il demonio ha genio. Negarlo sarebbe diminuire il merito
di Domineddio. Questa struttura ha tre livelli, indipendenti, talvolta quasi
sconosciuti l’uno all’altro, eppure completamente fusi in un identico
fenomeno. Cominciamo dal basso. Il livello più propriamente criminale: gli
specialisti dell’assassinio. Centinaia di migliaia di miliardi abbiamo detto.
Per gestire valori economici così imponenti, legati all’impunità della
produzione e del traffico di migliaia di tonnellate di droga è indispensabile
un controllo costente e totale del territorio di traffico. Non ci deve essere
un ostacolo, un rischio, una trappola. E’ necessaria quindi una folla di
complicità dovunque, in ogni settore della società, criminali comuni,
impiegati del fisco, piccoli armatori marittimi, dipendenti delle linee aeree,
funzionari dello stato, probabilmente anche funzionari di polizia, magistrati,
ufficiali di finanza, amministratori di enti locali, sindaci, assessori. Tutti
costoro stanno al livello che abbiamo detto della manovalanza criminale,
ognuno pagato e ricattato per suo conto, all’interno di un gruppo che
garantisce il dominio di un piccolo territorio o quartiere della città. Solo
alcuni di loro gestiscono la droga, ognuno però con piccoli compiti, avvolti,
protetti, nascosti dal clan, ed ogni clan a sua volta con la funzione soltanto
di garantire il territorio. Ogni tanto taluno di questi gruppo si scontra con
un altro per il predominio su un territorio e allora accade l’ecatombe,
trenta, quaranta assassinii finché un gruppo viene sterminato e la supremazia
criminale affermata. La strage terrificante fra i clan catanesi dei Santapaola
e dei Ferlito, conclusa con l’assassinio di Alfio Ferlito, assieme ai tre
carabinieri che lo accompagnavano nel trasferimento dal carcere di Enna a
quello di Trapani, rappresenta una delle battaglie più feroci per aggiudicarsi
la supremazia in una grande area metropolitana. Gli spettacolari assassinii di
Stefano Bontade e Gaetano Inzerillo a Palermo, epilogo spettacolare di una
catena di cinquanta omicidi, sono stati un altro momento di questa lotta che
ha visto la sanguinosa vittoria del clan dei Greco e dei Marchese. Ma anche i
vincenti, i padroni del clan, sono poco più di subappaltatori dell’immenso
palinsesto mafioso: governano l’impresa criminale su una zona, conoscono
alcune segrete strade della corruzione, sono ammessi in alcune anticamere del
potere. La loro autentica forza è la capacità di uccidere, disporre di trenta,
quaranta individui che sanno maneggiare tutte le armi più micidiali e
all’occorrenza poter contare sulla loro devozione e infallibilità. Capimastri,
non di più! Governano la loro parte di cantiere ma non sono mai entrati nella
stanza dei progetti. Molto più in alto dei cosiddetti uccisori c’è il livello
dei pensatori, con la lontananza, il distacco di autorità che può esserci tra
una fanteria alla quale è affidato soltanto il compito di conquistare,
uccidere, presidiare, morire, e le stanze imperscrutabili dello Stato maggiore
dove si elabora la grande strategia mafiosa. Scopo unico e massimo di questa
strategia è la riciclazione del denaro continuamente prodotto dall’operazione
droga, cioè la fase ultima e più delicata, quella appunto che esige una
autentica capacità tecnica e finanziaria. Si tratta infatti di centinaia e
migliaia di miliardi che, per essere immessi nel mercato economico e diventare
usufruibili, debbono passare attraverso una serie di operazioni legali che li
assorbano e magicamente li riproducano come ricchezza. Ci vuole talento, ci
vuole fantasia, competenza tecnica. Non a caso abbiamo parlato di un salto
nella cultura mafiosa. Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le
grandi imprese economiche. Anzitutto le banche: ricevono il denaro, lo fanno
proprio, lo celano, lo amministrano, conservano, proteggono, reimpiegano
(cento miliardi provenienti dalla droga, alle cui spalle sono decine di
persone miseramente morte o uccise, e migliaia di infelicità umane, possono
essere impiegati per la costruzione di un grattacielo, un ponte, una diga,
un’autostrada). Le banche gestite e controllate dallo stato difficilmente
potrebbero (ma non è detto che non possano) poiché c’è sempre il rischio di un
funzionario di vertice che indaga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le
banche private. Talune banche private ovviamente. Non a caso Sindona aveva la
vocazione di creare banche, ne aveva l’estro, la fantasia. Il giorno in cui
dovesse decidere di raccontare finalmente tutta la verità, molti imperi
finanziari vacillerebbero. E in realtà Sindona, invecchiato, gracile, stanco,
terrorizzato, preferisce starsene in un tiepido carcere americano. All’aria
aperta, in libertà, non avrebbe certamente più di un giorno di vita! Per
decifrare perfettamente la tragedia mafiosa sarebbe interessante sapere
appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento, per cui
riusciva a sconvolgere persino gli alti burocrati della Banca d’Italia,
Michele Sindona, piccolo ragioniere di provincia, riuscì in meno di quindici
anni a creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia. Banche che fiorivano,
si moltiplicavano, esplodevano letteralmente nelle grandi città e nei centri
di periferia dove per gestire gli affari economici, i micragnosi affari della
piccola borghesia commerciale e agricola sarebbe stata già d’avanzo un’agenzia
del Banco di Sicilia. Banche invece che spalancavano di colpo i battenti:
"Eccomi qua, io sono la nuova banca! A disposizione!", tutto l’apparato già
pronto, direttori, impiegati, casseforti, banchi di metallo, sistemi
elettronici, computerizzazione, vetri antiproiettile, uscieri, gorilla con la
divisa di sceriffo e la Smith Wesson, epiche cerimonie inaugurali con
interventi di parlamentari, sottosegretari, ministri, questori, prefetti,
"Taglia il nastro la gentile signora di sua eccellenza", fiori, applausi,
banchetto, champagne, capitali già depositati nelle casseforti. Quante di
queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di Sindona e che
Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto giudice milanese dette
incarico a un famoso commercialista, l’avvocato Ambrosoli, di venire a Palermo
per indagare, capire. Era un professionista principe ma molto ingenuo.
Praticamente lo condannarono a morte. Prima ancora che potesse venire in
Sicilia gli fecero la pelle. Da allora non ha tentato più nessuno. In verità
c’era stato un primo lontanissimo botto che avrebbe dovuto far trasalire la
nazione e invece parve soprattutto una cosa da ridere: quando un cocciuto
magistrato palermitano scoprì che il senatore democristiano Verzotto, per anni
segretario regionale del partito e presidente dell’Ente minerario siciliano
aveva versato centinaia di milioni di fondi neri e diversi miliardi dello
stesso ente minerario presso la filiale di una delle banche di Sindona e ne
percepiva clandestinamente gli interessi. Che la vicenda avesse indotto più
all’ironia che allo spavento, dipese probabilmente dalla sagoma del
protagonista, il nominato senatore Verzotto. Alto, imponente, ridente, capelli
grigi, taglio impeccabile del vestito, grande sigaro in bocca, cappotto di
pelo di cammello svolazzante sulle spalle, sembrava anche visivamente il
personaggio perfetto per una pochade politica più che per una tragedia
mafiosa. Invece fin d’allora si sarebbe dovuto intuire da quali altre e ben
più profonde oscurità arrivavano i capitali per le banche di Sindona e dei
suoi alleati, e come esse servissero soprattutto alla riciclazione di una
massa enorme di denaro che non si sarebbe potuta altrimenti impiegare. Lo
spiraglio aperto da un giudice coraggioso e tenace avrebbe dovuto spalancare
la strada invece esso venne precipitosamente sbarrato. Incredibilmente nemmeno
ai vertici della banca di stato, che dovrebbe controllare tutto il movimento
del denaro sul territorio nazionale, valutandone origini e destinazione, venne
presa alcuna iniziativa sulle banche che stavano proliferando nel sud. Nemmeno
il governo del tempo ed i ministri finanziari batterono ciglio. Tutti
arretrarono di qualche passo per prendere le distanze, a spintoni e calci
venne fatto avanzare il solo tuonitonante Verzotto, il quale infatti rimase
solo alla ribalta, perché l’opinione pubblica potesse farci in conclusione una
bella risata di scherno. Verzotto veniva dalla scuola di Enrico Mattei, il più
sottile cervello politico italiano del dopoguerra, ma non gli rassomigliava in
niente; quanto quello era ansimante, frettoloso, sciatto, ruvido ma geniale,
tanto Verzotto era invece calmo, opimo, quasi regale, elegante cortese e,
probabilmente, anche un po’ minchione. Per la magniloquenza del suo tratto era
uno di quei personaggi capaci di procurare grandi catastrofi con perfetta
noncuranza e senza probabilmente rendersene conto. Tuttavia dal suo esilio di
Beirut, dove ebbe l’agilità di scappare una settimana prima dell’ordine di
cattura, disse una cosa significativa: "Come potete pensare che io vada a
sporcarmi le mani per un semplice affare di poche centinaia di milioni di
interessi, quando in una banca si possono manovrare invece interessi per
centinaia di miliardi!". Tutti pensarono alla malinconica battuta di uno
sconfitto. Del senatore Verzotto si sono perdute le tracce. Anzitutto banche,
dunque! Talune banche, naturalmente. Che noi non conosciamo e che però il
potere politico e i vertici finanziari dello stato dovrebbero ben conoscere.
Ma le banche possono ricevere il denaro nero, sotterrarlo nei propri forzieri,
nasconderlo, mimetizzarlo, far perdere le tracce della sua provenienza, cioè
reinvestirlo e così purificarlo, ma non possono certo condurre in proprio le
operazioni tecniche di investimento. Qualcuno deve farlo. Accanto alle banche
ecco dunque le grandi imprese industriali e commerciali che, opportunamente,
saggiamente, prudentemente, garbatamente, silenziosamente amabilmente
finanziate, possono riuscire ad impiegare quei capitali, trasformandoli in
opere di sicuro valore economico. E non è detto che non siano opere di
mirabile importanza e perfezione civile: un moderno ospedale, un carcere
modello, una città-giardino, un complesso sportivo, persino una nuova chiesa.
E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro cavalieri
catanesi. Dopo quello che è accaduto, vien facile perfino la citazione: "I
quattro cavalieri dell’Apocalisse". L’Italia è uno strano paese in cui si
sperimentano bizzarre onorificenze, per le quali cavaliere del lavoro invece
di essere un bracciante, anche analfabeta, che per trent’anni si è spaccata la
vita in una miniera tedesca pur di riuscire a costruirsi una casa a Palma di
Montechiaro, è invece un appaltatore che riesce a trovare fantasia e modo di
moltiplicare la sua ricchezza. Tutto questo in un paese dove la gestione e la
moltiplicazione della ricchezza, la grande fortuna economica o finanziaria,
per struttura stessa della società politica, deve fatalmente passare
attraverso un compromesso costante con il potere, con i partiti che
sostanzialmente amministrano la nazione, con gli uomini politici o gli
altissimi burocrati ai quali i partiti delegano praticamente tale funzione, lo
spirito di nuove leggi e decreti, la scelta delle opere pubbliche,
l’assegnazione degli appalti. Chi afferma il contrario è candidamente fuori
dal mondo oppure è un amabile imbecille. A questo punto della storia dunque
avanzano sul palcoscenico i quattro cavalieri di Catania, loro avanti di un
passo e dietro una piccola folla di aspiranti cavalieri di ogni provincia del
Sud, affabulatori, consiglieri, soci in affari, subappaltatori. Chi sono i
quattro cavalieri di Catania? E’ una domanda importante ed anche spettacolare
poiché i quattro personaggi sembrano disegnati apposta per costituire
spettacolo. Profondamente dissimili l’uno dall’altro, nell’aspetto fisico e
nel carattere. Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile
e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente
timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi
interlocutore, vestono però tutti alla stessa maniera, almeno nelle
apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini,
di quella eleganza senza moda proprio dell’industriale self-made-man. Tutti e
quattro hanno imprese, aziende, interessi in tutte le direzioni, industrie,
agricoltura, edilizia, costruzioni. Non si sa di loro chi sia il più ricco, a
giudicare dalle tasse che paga sarebbe Rendo, ma altri dicono sia invece
Costanzo, il più prepotente, l’unico che abbia osato pretendere e ottenere un
gigantesco appalto a Palermo; altri ancora indicano Graci, proprietario di una
banca che, per capitali, è il terzo istituto della regione. La ricchezza di
Finocchiaro non è valutabile. Molti ancora si chiedono: ma chi è questo
Finocchiaro. Costanzo costruisce di tutto. Case popolari, palazzi, villaggi
turistici (la Perla Jonica, sulla costa di Catania, ha nel suo centro un
palazzo dei congressi che non esiste nemmeno a Roma, i partecipanti al
congresso nazionale dei magistrati in cui era appunto all’ordine del giorno la
lotta contro la mafia, improvvisamente si accorsero di essere riuniti e di
lavorare in uno dei templi del potere di Costanzo). Costanzo costruisce anche
autostrade, ponti, gallerie, dighe; e possiede anche le industrie necessarie a
produrre tutto quello che serve alle costruzioni: travature metalliche,
macchine, tondini di ferro, precompressi in cemento, infissi in alluminio,
tegole, attrezzature sanitarie. Un impero economico autonomo che non deve
chiedere niente a nessuno. Poche aziende in Europa reggono il confronto per
completezza di struttura. Ha un buon pacchetto di azioni in una delle più
diffuse emittenti televisive private. E’ anche presidente e maggiore azionista
della Banca popolare. Rendo ha interessi più diversificati, diremmo più
moderni, almeno culturalmente la sua azienda sembra un gradino più in alto.
Anche lui costruisce case, palazzi, ponti, autostrade, dighe, ma possiede
anche aziende agricole modello che guardano con estrema attenzione agli
sviluppi del mercato europeo e alle ultime innovazioni tecniche. Ha un suo
piccolo fiore all’occhiello, una fondazione culturale che destina fondi alla
ricerca scientifica a livello universitario. Quanto meno ha capito che i soldi
non possono servire soltanto a produrre altri soldi. La sede della holding è
il ritratto stesso dell’azienda, una serie di palazzi di acciaio, alluminio e
metallo, l’uno legato all’altro, sulla cima di una collina alle spalle di
Catania, una immensa sagoma grigia e azzurra, come tre palazzi della RAI di
via Mazzini, incastrati insieme, e circondati da un immenso giardino al quale
si accede soltanto per un ingresso sorvegliato da uomini armati. Sembra il
passaggio di un confine. Anche Rendo naturalmente ha la sua televisione
privata con la quale garbatamente interviene nella informazione della pubblica
opinione. Ricordiamoci che Andropov, l’uomo nuovo del Cremlino successore di
Breznev, è riuscito ad arrivare al vertice dell’impero sovietico poiché,
mentre era a capo dei servizi segreti inventò l’ufficio della disinformazione,
specializzato nel confondere la realtà. Si tratta di una scienza ammessa al
massimo livello politico. L’impero di Graci non ha sede. Cuore e cervello
motore di tutte le iniziative è probabilmente la Banca agricola etnea, di sua
proprietà. Per il resto Graci è pressoché invisibile. Amico di Gullotti e di
Lauricella, vive gran parte del suo tempo a Roma, dove studia, coordina,
dirige. Fra tutti è quello che ha la più vasta copia di interessi, cantieri di
costruzione in ogni parte dell’isola e dell’Italia, aziende agricole, villaggi
turistici, immense estensioni di terra dappertutto. Negli ultimi tempi la sua
predilezione sono i grandi alberghi di fama internazionale: il suo più recente
acquisto l’hotel Timeo, sulla collina di Taormina, a ridosso del Teatro Greco,
uno degli alberghi più belli del Mediterraneo, arredato in stile inglese primo
novecento. Pare abbia acquistato dal duca di Misterbianco (sembra una storia
del Gattopardo, raccontata cento anni dopo) il famoso lido dei Ciclopi, il più
prezioso giardino equatoriale, ricco di piante esotiche che non hanno eguali
in Europa e che per quarant’anni nessuno ha osato sottrarre alla sua
destinazione balneare. Di tutti i cavalieri del lavoro Graci, che fino a
qualche anno fa era sconosciuto a Catania, e il più riservato, raramente
compare in prima persona. Possiede anche lui la maggioranza azionaria di
un’emittente privata e di un giornale quotidiano, ma il suo nome non figura
nei rispettivi consigli di amministrazione. Narrano anche della sua
generosità. Ogni tanto organizza per i suoi amici mitiche partite di caccia in
uno dei suoi feudi siciliani! Possiede anche una favolosa cantina di vini
pregiati ai quali sono ammessi soltanto gli amici di vertice. Finocchiaro
sembra il cavaliere meno forte. L’ultimo arrivato dei quattro al rango di
massima potenza. Costruisce soltanto, e quasi sempre solo palazzi. Ha però una
sua regola: efficiente, preciso, puntuale, rapido, i suoi appalti sono stati
sempre terminati a tempo di record. In meno di due anni ha costruito il nuovo
palazzo della Posta ferroviaria, un gigantesco edificio moderno sul lungomare
di Catania, accanto alla stazione, e la nuova Pretura, altro massiccio
edificio incastrato proprio nel cuore della città, a cento metri dal palazzo
di Giustizia. Poiché la Pretura di Catania convoglia quotidianamente gli
interessi di migliaia di persone, non appena il nuovo edificio entrerà in
funzione, il traffico di tutta quella zona essenziale della vita cittadina,
resterà probabilmente paralizzato. Esempio di come possa essere nefanda
un’opera pubblica pur perfettamente realizzata. Finocchiaro infine è anche il
più lezioso. La sede della sua impresa sorge sulla litoranea fra Catania e i
Ciclopi, in uno dei tratti più splendidi della riviera, una grande villa, in
verità bellissima, sovrastata e circondata dal verde e da una serie di piscine
intercomunicanti, sicché, una levissima massa d’acqua si muove
ininterrottamente dalle terrazze ai patii. La gente passa, guarda e s’incanta.
Questi, almeno dal punto di vista dello spettacolo, i quattro cavalieri di
Catania. Ma chi sono in verità? Perseguiti dalla magistratura con mandati di
cattura e ordini di comparizione, alcuni sospettati di gigantesche frodi
fiscali e addirittura di associazione a delinquere, assediati dalla guardia di
finanza che sta frugando in tutti i loro conti, rifiutati dalla pubblica
opinione, soprattutto dai più poveri e sfortunati i quali non riescono mai ad
amare le fortune troppo rapide e sprezzanti, ed al momento in cui le vedono
crollare hanno un momento di trasalimento di felicità e un grido: "Lo
sapevo!", i quattro cavalieri sono nell’occhio del ciclone, in mezzo al quale
sta immobile e sanguinoso l’assassinio del prefetto Dalla Chiesa, la più
feroce e tragica sfida portata dalla mafia all’intera nazione. Chi sono dunque
i quattro cavalieri? Quale il loro ruolo in questo autentico tempo di
apocalisse? Già il fatto che questi quattro personaggi si siano riuniti
insieme per discutere e decidere il destino futuro dell’imprenditoria e quindi
praticamente dell’economia di mezza Sicilia e stiano lì segretamente, due più
due quattro, seduti l’uno in faccia all’altro, a valutare, soppesare,
scartare, annettere, distribuire, in una sala che è facile immaginare di
gelido vetro e metallo, inaccessibile a tutti, nel cuore segreto dell’impero
Rendo, con decine di uomini armati dislocati ad ogni ingresso del palazzo; e
che al termine del convegno uno di loro, Costanzo, il più plateale,
chiaramente tuttavia portavoce di tutti e infatti mai smentito, dichiari
spavaldamente al massimo giornale italiano: "Abbiamo deciso di aggiudicarci
tutte le operazioni e gli appalti più importanti, quelli per decine o
centinaia di miliardi, lasciando agli altri solo i piccoli affari di due o tre
miliardi, tanto perché possano campare anche loro!"; e che tutti e quattro
siano giudiziariamente accusati di evasioni per decine o forse centinaia di
miliardi, tutto denaro pubblico, quindi appartenente anche al maestro
elementare, al piccolo artigiano, al contadino, al manovale, all’impiegato di
gruppo C, all’emigrante, poveri innumerevoli italiani che sputano sangue per
sopravvivere e spesso maledettamente nemmeno ci riescono; e che taluni di loro
siano stati amici del bancarottiere Michele Sindona, o del boss Santapaola,
ricercato per l’omicidio di Dalla Chiesa, o del clan Ferlito il cui capo venne
trucidato insieme a tre poveri carabinieri di scorta: ebbene tutto questo non
corrisponde all’immagine, secondo costituzione, di cavalieri della repubblica.
Ma non è questo il punto. Il quesito è un altro, ben più duro e drammatico: i
quattro cavalieri, o taluno di loro, e chi per loro, stanno in quel massimo e
misterioso livello che fa la storia della mafia? A questa domanda si possono
dare tre risposte secondo tre diverse prospettive: quello che appare, quello
che la gente pensa, e quello che probabilmente è vero. Quello che appare è ciò
che abbiamo descritto, cioè di quattro potenti di colpo sospinti nel cuore di
una tempesta politica, inquisiti fiscalmente e giudiziariamente per possibili
e gravi delitti. Solo il magistrato potrà dire una verità che può essere tutto
e il contrario di tutto. Quello che la gente pensa è più brutale, e cioè che i
cavalieri di Catania, o taluno di loro, partecipano alla grande impresa
mafiosa e furono loro a impartire l’ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il
generale osò chiedere allo stato gli strumenti legali per rovistare nei loro
imperi economici. Ma quello che pensa la gente (e che anche tutti i grandi
giornali, con perigliose acrobazie di linguaggio hanno dovuto riferire) non
può avere alcun valore giuridico e nemmeno morale, poiché può nascere da
pensieri spesso mediocri, rancori sociali, invidie umane. Non ci sono prove e
quindi fino ad oggi non esiste! Infine quello che probabilmente è: cioè di
quattro personaggi i quali, con superiore astuzia, temerarietà, saggezza,
intraprendenza, hanno saputo perfettamente capire i vuoti e i pieni della
struttura sociale italiana del nostro tempo e della classe politica che la
governa, ed essere più rapidi e decisi nel trarne i vantaggi. Enrico Mattei
era maestro in questa arte. Anche Agnelli deve essere più rapido e deciso dei
concorrenti. Il rapporto con la mafia è stato agnostico: noi facciamo i nostri
affari, voi fate i vostri! Noi vogliamo costruire strade, palazzi, ponti,
dighe, essere proprietari di banche e aziende agricole, ottenere gli appalti
delle opere pubbliche. Questo è affar nostro. Voi volete gestire la droga!
Affar vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori di scavo e
trasporto! Che sia! Però non vogliamo bombe nei nostri cantieri, nemmeno
estorsioni, nemmeno che i nostri figli, parenti, fratelli, amici, possano
essere rapiti o sequestrati. Se così è, tutto questo non è morale, ma non è
nemmeno reato! E purtroppo non è nemmeno una vera risposta in un momento
storico terribile in cui la tragedia mafiosa non abbisogna di ipotesi ma di
verità definitive, anche se agghiaccianti. Esiste infatti una realtà
innegabile: perché la mafia possa amministrare le sue migliaia di miliardi,
debbono pur esserci imprese private ed istituti pubblici, uomini d’affari o di
politica capaci di garantire l’impiego e la purificazione di quell’ininterrotto
fiume di denaro. La nazione ha finalmente il diritto di identificarli! E la
Sicilia il diritto di non essere data in olocausto alla incapacità dello stato
(o peggio) di identificarli. Esiste oltretutto una realtà che è anche un fatto
morale e politico di cui bisogna onestamente parlare. Da decenni, forse da
secoli, la società siciliana non ha avuto una imprenditoria capace di
esprimere le sue esigenze e metterle al passo con la tecnica e la civiltà.Venivano
tutti da nord, prendevano il denaro e il territorio, costruivano e se ne
andavano. Spesso costruivano male. Talvolta le loro opere erano autentiche
rapine o devastazioni o truffe. Il saccheggio del golfo di Augusta e
l’avvelenamento di centomila abitanti di quel territorio con gli scarichi
petrolchimici costituirono una di queste grandi imprese. I giganteschi ruderi
industriali nel golfo di Termini Imerese, stabilimenti che non hanno mai
funzionato e che hanno divorato migliaia di miliardi della regione,
rappresentano un’altra impresa. In tutto quello che è stato costruito in
Sicilia, i siciliani sono stati al più subappaltatori (se possibile anche
mafiosi) o soltanto miserabile manodopera. Erano poveri, ignoranti,
disponibili, costavano poco, non si ribellavano mai. I colossi petrolchimici
della Rasiom furono costruiti con migliaia di pecorai e braccianti trasformati
in manovali. La Sicilia è stata sempre una terra tecnodipendente.
Improvvisamente, nell’ultimo ventennio, sono emersi questi cavalieri del
lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti,
aggressivi, qualcuno anche grossolano e ignorante, però dotati di fantasia, di
straordinarie capacità industriali e tecniche, e di talento, precisione,
velocità. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno creato
aziende e tecnici di altissima specializzazione, incorporato in questa grande
macchina di lavoro decine di migliaia di altri siciliani, e la loro
intraprendenza si spinge oramai su tutto il territorio nazionale, in Europa,
in Africa, nel Sud America. La loro concorrenza è spietata. Molte grandi
aziende del nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo
meridionale, ma si vedono insidiati nel loro stesso territorio. Bene, la
tragedia mafiosa certamente ha offerto la possibilità di una controffensiva su
tutto il fronte, una specie di santa inquisizione. Il tentativo di stabilire
un rapporto di colonizzazione è chiaro. Allora a questo punto il discorso è
già perfetto. Se tutti i cavalieri di Catania e di Sicilia, tutta
l’imprenditoria dell’isola fa parte della struttura mafiosa, che la si
sradichi e distrugga con tutti i mezzi della giustizia. Se solo alcuni di loro
sono dentro la mafia, allora bisogna colpire soltanto loro, implacabilmente,
eliminandoli dalla società, e rilasciando così agli altri, ai superstiti, una
possibilità politica e morale di continuare l’opera di evoluzione tecnica che
per molti versi stava trasformando la Sicilia. Colpire tutti, anche gli
innocenti, equivale a non colpire nessuno, lasciando quindi i mafiosi nel loro
ruolo; significa egualmente il trionfo della mafia. La mafia che finalmente si
identifica con lo stato! Ed è qui che entra in gioco l’ultimo livello della
struttura, l’imperscrutabile vertice che finora ha paralizzato la giustizia.
Riguardiamola questa struttura. In basso la sterminata folla di manovali che
si contendono il sottobosco del potere criminale, tutte le infinite cose dalle
quali può nascere ricchezza: i mercati, le concessioni, i subappalti, le
estorsioni, una moltitudine confusa e terribile che appesta e insanguina quasi
tutte le funzioni della società sottomettendo le province, le città, i
quartieri. Più in alto, molto più in alto, i due livelli paralleli, i grandi,
insospettabili finanzieri e operatori che gestiscono migliaia di miliardi
della droga; le banche che ricevono, nascondono e riciclano quella massa
infame e infinita di denaro; le grandi holding siciliane, romane, milanesi,
che assorbono quel denaro e lo trasformano in ammirabili operazioni pubbliche
e private. Manca l’ultimo livello, il più alto di tutti, senza il quale gli
altri non avrebbero possibilità di esistere. Il potere politico! Vi racconto
una piccola atroce storia per capire quale possa essere la posizione del
potere politico dentro una vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni
fa e che oggi non avrebbe senso e che tuttavia in un certo modo interpreta
tut’oggi il senso politico della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di
Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia
palermitana c’è un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome
Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della Dc,
rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso, chiamato
Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici. Quattrocento
persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo politico del partito,
in una zona fin allora feudo di liberali e monarchici, ma il sindaco Almerico
sapeva che quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della
maggioranza ed avrebbero saccheggiato il comune. Con un gesto di temeraria
dignità rifiutò le tessere. Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono
allora domanda alla segreteria provinciale della Dc, retta in quel tempo
dall’ancora giovanile Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di
accogliere quelle quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco
Almerico, che era medico di paese, un galantuomo che credeva nella Dc come
ideale di governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni,
rispose ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che
se non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico medico
galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò
ancora. La segreteria provinciale si incazzò, sospese dal partito il sindaco
Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico
cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale, indirizzato
alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che
accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E continuò a
vivere nell’attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti. Nessuno gli dette
retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva solo continuare a comandare
da solo la città emarginando forze politiche nuove e moderne. Talvolta lo
accompagnavano per strada alcuni amici armati per proteggerlo. Poi anche gli
amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal
municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti
della piazza si cominciò a sparare contro quella povera ombra solitaria.
Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale
Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di
Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del
partito venne considerato un pazzo alla memoria. E’ una storia oramai lontana
e dimenticata, nella quale erano in gioco soltanto quattrocento voti di
preferenza: una piccola storia però perfetta come un teorema poiché spiega
come può il potere politico gestire la vicenda mafiosa e starci da
protagonista. E come ancora oggi negli anni ’80, al vertice di ogni livello di
mafia stia immobile e inalterabile una parte del potere politico. Il potere
politico che è misterioso sempre e mai perfettamente identificabile, spesso
nemmeno perseguibile dalla giustizia che ha nelle mani tutti gli strumenti,
positivi e negativi della potenza: dovrebbe proteggere ecologicamente un
territorio e invece lo abbandona alla morte chimica o alla speculazione
selvaggia; già da dieci anni avrebbe dovuto abolire il segreto bancario e non
lo ha mai fatto; dovrebbe emarginare gli uomini corrotti, ignoranti, violenti
e viceversa li conduce talvolta in parlamento e gli affida uffici ministeriali
onnipotenti; dovrebbe garantire la regolarità dei concorsi e invece assedia le
commissioni di esame con raccomandazioni e violenze morali; dovrebbe costruire
una diga in quella provincia e invece costruisce un villaggio turistico in
un’altra; dovrebbe smantellare determinati uffici di procura e invece li
abbandona nelle mani di giudici inerti, paurosi, o peggio. Il potere politico
che nasconde, protegge, mimetizza, informa, contratta, archivia. Il potere
politico che stabilisce la spesa di migliaia di miliardi per opere pubbliche,
determina l’ubicazione e consistenza delle opere, ne affida gli appalti. Il
presidente della regione Pier Santi Mattarella, anche lui democristiano
onesto, venne ucciso perché aveva deciso di spendere onestamente i mille
miliardi della legge speciale per il risanamento di Palermo. Quasi certamente
fra coloro che assistettero commossi ai funerali, espressero sincere
condoglianze, e baciarono la mano alla vedova, c’erano i suoi assassini.
Probabilmente gli stessi che avevano seguito dolorosamente i funerali del vice
questore Boris Giuliano, del giudice istruttore Cesare Terranova, del
procuratore della repubblica Gaetano Costa, del segretario comunista Pio La
Torre. Tutti e quattro assassinati poiché stavano già scoprendo i punti di
sutura fra politica e mafia. Anche il generale Dalla Chiesa aveva capito. Era
uno sbirro nel senso eccellente della parola. Non dimentichiamo che aveva
presentato domanda di iscrizione alla P2. La domanda non era stata accettata
poiché Gelli aveva fiutato l’infido e cercato di prendere tempo. E lo stesso
Dalla Chiesa ebbe poi a giustificarsi affermando di aver compiuto quella
oscura mossa personale per scoprire alcune verità politiche all’interno della
loggia massonica segreta. Quanto potesse essere sincero lo seppe soltanto lui.
Certo era un uomo che da tempo aveva intuito la connessione fra potere
politico, ricchezza e violenza. La lunga e atroce lotta contro le BR gli aveva
fornito preziosi elementi di prova, ed altri ne aveva acquisiti in centinaia
di interrogatori. Si stava disegnando una sua mappa dell’occulto. Quando
arrivò a Palermo con la carica di superprefetto, i vertici criminali sapevano
perfettamente di avere di fronte l’avversario più duro e cosciente. Rispetto
agli altri che erano caduti prima di lui, egli aveva in più un prestigio
mitico, ma soprattutto stava per avere in pugno gli strumenti giuridici, le
armi decisive per condurre la lotta fino in fondo: quei superpoteri che
incredibilmente (un giorno bisognerà pur riscriverla perfettamente questa
storia) lo Stato continuava a negargli e che tuttavia alla fine avrebbe dovuto
concedergli. Dalla Chiesa commise un solo errore. Di vanità. In fondo egli
restava un militare e quindi soprattutto un retore. Gli piaceva trasformare
qualsiasi lotta in guerra aperta, con tutte le vanaglorie del combattimento:
bandiere, tamburi, proclami, applausi, dimostrazioni di amore popolare. Tutto
questo contro un avversario che era sempre sottoterra, un gelido, sinistro
groviglio di serpenti che potevano essere dovunque, in ogni momento sotto i
suoi piedi, che potevano sedere accanto a lui sul palco di una festa
nazionale, stringergli la mano, fargli auguri e congratulazioni. Seguire poi
tristemente il suo funerale, come poi certamente accadde. La guerra contro un
tale nemico è oscura e senza gloria, e infinitamente più terribile di ogni
altra, non si può vincere in una serie infinita di scaramucce, poiché i
serpenti restano dovunque, muoiono e si moltiplicano, ma bisogna vincerla in
una volta sola, una sola battaglia, preparata con paziente perfezione in ogni
dettaglio. Invece il generale Dalla Chiesa faceva discorsi, rilasciava
interviste, invocava, accusava, era l’unico personaggio italiano che poteva
chiedere ed ottenere i poteri speciali, e quindi anche la facoltà di indagini
nelle banche e nei patrimoni privati, e lo fece sapere a tutti: praticamente
come se dicesse a tutti, gridasse: "So chi siete, da un momento all’altro vi
strapperò la maschera! Fate presto a uccidermi o non avrete tempo!" E come
tutti i retori era anche ingenuo. Avrebbe dovuto preparare la battaglia,
chiuso in un bunker, protetto da cento carabinieri e da ogni diavoleria
elettronica, e invece viaggiava su una macchinetta con la giovane moglie
accanto e solo un povero agente di scorta. Proprio questo poveraccio avrebbe
dovuto rifiutarsi: "Generale, io così con lei non viaggio!" Ma Dalla Chiesa
era un mito! Infatti lo uccisero con una facilità irrisoria, a colpo sicuro,
(se è vero quello che finora ha detto la magistratura) con due rozzi killer,
proprio manovali della mafia fatti venire da un’altra provincia della Sicilia
e addirittura dalla Calabria. Dalla Chiesa morì, ma il suo colpo tremendo
l’aveva già vibrato, forse proprio con la sua ingenua retorica, indicando con
discorsi e proclami a tutta la nazione, clamorosamente, quello che tanti altri
ministri, anche altissimi ufficiali e magistrati, sapevano e però non
dicevano, cioè dov’era il groviglio dei serpenti, e quali dunque i mezzi per
portarli allo scoperto e schiacciarli.
fonte: www.girodivite.it
