16 maggio 2010 Corriere della Sera articolo di Isabella Bossi Fedrigotti

I nostri figli fragili e con troppe pretese
Desideri, soldi, lavoro: li proteggiamo fino a disorientarli in un mondo complesso

E sebbene la crisi economica cominci a fare giustizia di tutto ciò in numerose famiglie, si può dire che ha senz’altro ragione. Come ha ragione quando afferma che, di conseguenza, i nostri ragazzi si ritrovano spesso fragili, disorientati e incapaci di affrontare le difficoltà e le prove che, come ben si sa, la vita non risparmia a nessuno. Lo vediamo, del resto, tutti i giorni intorno a noi, e, paradossalmente, i maschi paiono anche più colpiti delle femmine dai negativi effetti dell’ iperprotezione, probabilmente perché la loro è davvero la prima generazione della storia che è cresciuta così riparata, così aiutata e sostenuta, per cui ancora non ha sviluppato gli anticorpi necessari per sopravvivere in forze a questo trattamento di favore; mentre le femmine, si sa, un poco più riguardate sono sempre state, e forse hanno perciò potuto da tempo farsi le ossa per meglio resistere allo strisciante rimbambimento provocato da bambagia e coccole.
Resta da chiedersi perché noi genitori, quasi tutti, ricchi e poveri, abbiamo tentato in ogni modo di «appagare — come ha detto il cardinale— in tutti i modi il loro desiderio di felicità». Una risposta potrebbe essere che i ricchi, trovandosi per la prima volta a stretto, quotidiano contatto con i figli bambini — in passato affidati più che altro a tate e domestiche — non siano stati capaci di fare il loro mestiere, scegliendo, invece di educarli, la via più facile di accontentarli in tutto, e che coloro che ricchi non sono, per non essere da meno, abbiano cercato di fare più omeno lo stesso. Un’altra risposta, un po’ meno desolante, potrebbe invece essere che i genitori, tutti i genitori, percependo, a ragione, il mondo odierno più minaccioso e più spietato di quanto non fosse stato ai tempi loro, abbiano cercato e ancora cerchino di costruire intorno ai figli più reti protettive possibili, spianando per loro asperità, difficoltà e ostacoli di ogni tipo. Il risultato — e cioè la debolezza e la fragilità dei figli— è comunque lo stesso. Poche ore prima del cardinale anche un membro del governo ha parlato dei giovani, anzi, ai giovani. Ha raccomandato loro, il ministro Sacconi, di accettare, in questi tempi di crisi, ogni tipo di lavoro, di non rifiutarne nessuno perché giudicato troppo umile. E un poco ha ragione anche lui, lo si capisce, tanto per fare un esempio, gettando un’occhiata nei retrobottega di panetterie, pasticcerie, pizzerie e ristoranti, ma anche sartorie, lavanderie e supermercati dove da tempo ormai si intravedono soltanto giovani stranieri. Va tuttavia detto che, in cambio, innumerevoli ragazzi italiani accettano di lavorare anche 14 ore, per ottocento euro quando va bene, dentro un call center, rassegnandosi anche — come ci hanno informato le cronache — a farsi prendere a frustate sulle gambe in caso di mancato raggiungimento di risultato adeguato. E altrettanto innumerevoli, fragili magari sì, ma ben consci di come va il mondo, non raramente ancora studenti di università, infilano uno stage — non pagato — dopo l’altro pur di farsi le ossa. Per non parlare dei non pochi che cercano di prepararsi a un lavoro che non si trova facendo volontariato, spesso e volentieri anche assai lontano dal proprio quartiere, nei luoghi più difficili del mondo, in Africa, in Sudamerica, in Medio Oriente.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

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