E' tempo di rivolte dei desideri, non di rivoluzioni

Caro Sardelli, sui giovani non mi hai convinto

Massimo Ilardi
Non sono d'accordo con don Roberto Sardelli e con i contenuti della sua lettera aperta ai giovani pubblicata su Liberazione di domenica. L'assenza dalla politica, la fuga da qualsiasi ribellione contro i contesti sociali disegnati dal mercato, il silenzio rispetto al mondo, la mancanza di una coscienza critica che don Sardelli lamenta nei giovani di oggi sono, a mio parere, giudizi che risentono di una visione della società e dei suoi conflitti che appartiene a un'epoca ormai sepolta dalle tempeste della storia. Se é così, quel "macigno" che don Sardelli vorrebbe rimuovere perchè ostacolerebbe la comunicazione tra vecchia e nuova generazione, quel "macigno", secondo me, deve invece rimanere, soprattutto se si scrive che «noi con i capelli bianchi» possediamo gli strumenti per «educare» a un pensiero critico, a una maggiore partecipazione e a un progetto di società diversa.
Ma davvero don Sardelli pensa che "noi con i capelli bianchi", con le nostre esperienze, indignazioni, speranze, passioni, delusioni, autoflagellazioni, analisi, possiamo tenere il campo, con la sola parola, alla potenza delle reti, del mercato, dei desideri prodotti dal consumo? Davvero crede che «la realtà mediatica che é pura evasione» é meno forte e meno qualitativa dell'altra realtà, quella dell'impegno politico e sociale? Perchè se é così, allora quel «bagno nell'agitato fiume della realtà sociale» che don Sardelli consiglia ai giovani forse converrebbe anche a lui. Perchè la realtà sociale, ci piaccia o no, é proprio quella che é disegnata dalle merci e dal consumo che hanno reso anacronistico ogni riferimento a valori, ogni forma identitaria o di rappresentanza, ogni sguardo rivolto al futuro. Che facciamo allora come sinistra? Cosa opponiamo? Una forma di pensiero che pretende di rappresentare il corpo mistico di un'idea o, meglio, di una visione di un mondo altro che si erge a giudice del presente e che giammai si vuole incarnare con questo? O dobbiamo partire invece proprio da qui? Partire da queste minoranze, gruppi, bande che, dopo la crisi dei grandi valori e delle grandi ideologie, frantumano il sociale metropolitano e rendono l'individuo isolato, particolarizzato, intollerante di ogni dipendenza, irriducibile a ogni processo di mediazione culturale proprio perchè ha dalla sua la forza dell'incultura che lo rende dominatore, prima ancora della realtà mediatica, del territorio dove materializza immediatamente desideri e immaginario trasformandolo così in una zona di guerra.
Dobbiamo partire da qui perchè questo è oggi il "politico" metropolitano che la politica ha il destino di governare: non la scuola di Barbiana, ma un grumo esplosivo di mentalità, desideri, necessità, interessi immediati e particolarizzati che un ceto politico autoreferenziale e una società del controllo costringono all'estremismo o alla devianza, ma spesso anche alla rivolta. Certo, se la ribellione la vogliamo trovare, come cerca di fare don Sardelli, nel contesto del volontariato giovanile rimarremmo delusi come lui.
L'assistenza, la carità, la solidarietà, il futuro, un pensiero universale sono i suoi strumenti, buoni forse per una rivoluzione, ma la rivolta e la ribellione sono un'altra cosa: valgono per loro stesse, per quello che raggiungono o distruggono al momento, e non hanno altri obiettivi se non al presente.
Negli ultimi venti anni, sono stati proprio quei giovani e quelle culture che tanto deludono e indignano don Sardelli, nel periodo in cui la crisi dell'agire politico e della sua cultura ha delegato al mercato il governo delle metropoli, a scatenare le rivolte - da New York (1977) a Parigi (2005) - che hanno sovvertito più volte l'ordine della normalità. Non rivolte contro il sistema ma contro le sue regole e la sua legalità: rivolte per l'appropriazione e la liberazione di spazi, per la pratica di una libertà che non vuole impedimenti, per ridurre lo scarto tra desideri e soddisfazione degli stessi. E' poco? E' tutto.
Nella metropoli dell'iperconsumo, condizione unica del nostro vivere presente, la rivolta sul territorio ha sostituito il fascino della rottura rivoluzionaria operata dal pensiero perchè è solo la realtà tellurica che riconosce la "parte" e individua e organizza le differenze. La forza delle culture giovanili si misura, allora, non sull'avere o meno una "coscienza critica" capace di prendere la parola (impotenza del soggetto metafisico), ma appunto sulla capacità di conquistare spazi e, dunque, di dislocarsi dentro i conflitti che si dispiegano sul territorio. Per questo nessuna "parte" e nessuna cultura antagonista può sopravvivere alla fine del conflitto. Tutto ciò è impolitico? Ma qualcuno non ci ha insegnato che uno degli indicatori del politico è il livello di intensità che raggiunge il conflitto? Se è vero che la politica non può fermarsi a innescare conflitti, è anche vero che il conflitto, quando ha obiettivi limitati nel tempo e nello spazio, può incidere direttamente sulla decisione politica.

5/02/2008

 

 

 

 

 

 

 

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