Il compagno Cappelloni Guido di Loris Campetti
«Vieni avanti», mi aveva detto in tono freddo ma rispettoso. E non aveva aggiunto «cretino», quel compagno grigiamente elegante. Erano tempi in cui il dissenso non era consentito, ma i modi restavano cortesi. Andai avanti, era una stanza molto grande in non ricordo quale piano del mitico palazzo del Pci, alle Botteghe oscure. Quel compagno mi spiegò in tono severo che mi ero «posto oggettivamente fuori dal partito». Io non ero d’accordo. In quella grigia giornata di fine inverno del 1970 ero ancora convinto che «quelli del Manifesto» avessero ragione su tutto tranne su una cosa: non dovevano farsi radiare, dovevano restare dentro a far battaglia politica. Io ci provai, per un anno ancora, finché la verità (che come è noto era depositata alle Botteghe oscure) non mi venne sbattuta in faccia: «Forse sei un compagno in buona fede - mi disse paternamente quel compagno - ma devi prendere atto che non sei uno del Pci, sei uno del Manifesto». E aggiunse: «Tanti auguri». Avevano ragione i compagni che erano stati espulsi un anno prima. E aveva ragione quel dirigente delle Botteghe Oscure, che peraltro non parlava a titolo personale ma addirittura su mandato della CCC (il CC era il Comitato centrale, la CCC invece, la Commissione centrale di controllo). Erano i tempi del «centralismo democratico».
Ieri, parlando al telefono con quel reprobo di Franco Turigliatto, che ammetto di conoscere da tempo, ho scoperto che anche lui è stato convocato da un compagno che presiede il Collegio di garanzia (mutatis mutandis) del Partito della Rifondazione comunista, incaricato di spiegare all’affossatore delle speranze democratiche del popolo di sinistra che il suo operato l’ha reso «incompatibile con il Partito». In poche parole, Turigliatto «si è messo oggettivamente fuori dal Partito». Il racconto potrebbe finire qui - una semplice analogia. Senonché, capita che il compagno che fece chiarezza nella mia mente (e pulizia nel Partito) 37 anni fa si chiamasse Guido Cappelloni.
E capita che il compagno che ha convocato Franco Turigliatto si chiami, anch’egli, Guido Cappelloni. E’ ovvio, non può che essere un curioso caso di omonimia. Quel Cappelloni con cui ebbi a che fare io era nato a Macerata, come me ma molto prima, nel ’25 e dunque poteva essermi padre. Si era iscritto al Pci nel ’44 e aveva già alle spalle una gloriosa storia di guida delle proteste popolari, da quelle contro l’attentato a Togliatti alle lotte mezzadrili nelle Marche, al biennio rosso ’68-’69. Quindi la carriera nel Partito, in quella componente del Partito che aveva come fari i compagni Pietro Secchia e Armando Cossutta. Quel Guido Cappelloni che ha convocato - non a Botteghe oscure, a via del Polichinico - Franco Turigliatto, invece, è nato a Macerata nel ’25, nel ’44 si iscrisse al Pci e «nel periodo che va dal ’48 al ’69 sostenne numerose proteste popolari...».
Sì, è proprio lui. E’ sempre lui. Una vita da custode dell’ortodossia, in nome del «centralismo democratico». Sono passati 37 anni, forse sono passati invano. Credo che sia un’ottima persona, il compagno Cappelloni, il problema non è lui.
Non so perché, improvvisamente mi viene in mente un vecchio libro di Arthur Koestler: «Buio a mezzogiorno», scritto a ridosso delle purghe staliniane.