Picchiatori di Stato

Una commissione d'inchiesta: è la richiesta di molti parlamentari del centrosinistra dopo la testimonianza resa ieri dal vice questore della Mobile, Michelangelo Fournier, sull'irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova. "Sembrava una macelleria messicana, i miei colleghi infierivano sui manifestanti inermi a terra", ha detto il funzionario, imputato con altri 27 poliziotti per le violenze alla Diaz e alla caserma di Bolzaneto.

 

LA STAMPA: Violenza di Stato

Una battaglia a senso unico

di Riccardo Barenghi

Quella notte fu l’inferno. Per tutti quelli che dormivano nella palestra della scuola Diaz, improvvisamente invasa da decine di poliziotti.

Cominciarono a picchiarli, così, senza ragione. Spensero anche la luce e giù botte da orbi. E fu l’inferno anche per tutti quelli che, con un immediato passaparola, si ritrovarono lì fuori, costretti ad assistere allibiti e impotenti alla processione dei loro compagni portati via da quella scuola, sanguinanti, in barella o trascinati come sacchi dell’immondizia. Gridavano agli agenti «il mondo vi sta guardando», ma gli agenti non se ne curavano. Al massimno sorridevano, in altre parole se ne fregavano. Era la notte della vendetta per gli scontri della giornata e del giorno prima (quello in cui fu ucciso Carlo Giuliani). L’avevano preparata bene, portando molotov dentro la scuola per accusare poi i giovani no global, producendo prove false, come tubi e bastoni che in realtà erano gli strumenti di lavoro dei muratori che stavano ristrutturando una parte di quella scuola intestata a un famoso generale italiano della Grande Guerra. Gli agenti avevano bisogno di una dimostrazione di forza, il capo della Polizia Gianni De Gennaro era a Roma ma sul posto, proprio lì alla Diaz, c’erano i suoi uomini Arnaldo La Barbera e Franco Gratteri (imputati entrambi), forse volevano anche nutrire il loro carnet di arresti, che fino a quel momento erano «solo» un centinaio. E forse, chissà, una prova di forza serviva anche al nuovo premier Berlusconi, al suo vice nonché ministro degli esteri Fini (che si piazzò non a caso nella sala operativa della Questura genovese) e al ministro dell’Interno Scajola.

Quando lasciarono il campo di battaglia (una battaglia a senso unico, nessuno dei ragazzi reagì), il pavimento della palestra era pieno di sangue, e qualcuno scrisse un cartello: «Non lavate questo sangue». Quel cartello è diventato un simbolo del movimento no global, tanto che la collega di Repubblica Concita De Gregorio l’ha utilizzato come titolo del suo libro che racconta i giorni del luglio 2001 a Genova. Ma è la scuola Diaz e quel che lì dentro avvene la notte tra il 21 e il 22 luglio che sono diventati un simbolo dei giovani e meno giovani che erano nel capoluogo ligure in quelle drammatiche giornate del G8, e di tutti i loro compagni sparsi per l’Italia e per l’Europa. Fu vissuta, ancora viene vissuta, come l’emblema della violenza dello Stato, anzi dei Grandi del mondo, che si riunivano blindati nella zona rossa mentre fuori si protestava, si sfilava, ci si scontrava, si picchiava e si veniva picchiati, qualcuno anche ucciso, e si gridava che «un altro mondo è possibile».

C’erano Bush e Berlusconi, una coppia che bastava da sola per scatenare la rabbia di migliaia di ragazzi, dei loro leader politici (Bertinotti sfilò nel corteo del sabato), di molti sindacalisti della Fiom e della Cgil (ma non tutta la Cgil, l’allora segretario Cofferati non volle che la sua Confederazione aderisse alla marcia), di una parte della sinistra compresi molti iscritti e dirigenti dei Ds (non quelli principali però, neanche il Partito di Fasssino aderì). Tanto è diventata un simbolo che negli anni seguenti, ad ogni anniversario, centinaia di ragazzi hanno organizzato pellegrinaggi davanti a quella scuola, e una volta l’hanno anche occupata. Oppure che alcuni giornalisti del sito Indymedia (allora il sito del movimento) hanno costituito un gruppo di «supporto legale», registrando tutte le udienze del processo e mandandole in rete in tempo reale.

Ma finora, e il proceso dura ormai da tre anni, nessun agente o ufficiale aveva avuto il coraggio di confessare quel che ha confessato ieri il vicequestore Michelangelo Fournier: «Sembrava una macelleria messicana». Una macelleria che dal punto di vista politico oggi rischia di pagare una sola persona che ancora ricopre l’incarico di allora, il capo della polizia De Gennaro.
 

 

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