DA "ALIAS" inserto de Il Manifesto di sabato 8 marzo 2008

INDIAVOLATI JR.

Sono in aumento i disturbi neuropsichiatrici nell'infanzia e l'uso di terapie farmacologiche. L'Adhd è un disagio caratterizzato da incapacità di prestare attenzione e vivacità estrema: ne è colpito il 5% della popolazione scolare.

   ▀▀BAMBINI IPERATTIVI    ▀UNA PROPOSTA

di Mark Palermo

E' in corso in Italia una guerra di religione, quelle che gli umani prediligono e, quasi per definizione, senza fine. Uno scontro tra fondamentalismi clinici e pedagogici e, come in tutte le guerre di religione, tra opinioni su bene e male, su segni e simboli e sulla loro interpretazione. E' un dibattito tra schieramenti sull'esistenza (o inesistenza) di patologie comportamentali infantili come l'Adhd- acronimo di Attention Deficit and Hiperactivity Disorder (in Italiano Ddai) - e in merito a cause e rimedi. Da una parte, famiglie che lottano per ottenere il riconoscimento del loro dolore, reificato nel disagio dei loro figli iperattivi. Dall'altra, associazioni di professionisti che criticano le modalità di intervento della controparte o negando l'esistenza del disagio mentale infantile. Situazioni che si ripetono ciclicamente nella storia della psichiatria moderna. Cambiano solo le diagnosi oggetto di scontro.

Con ovvio timore, in tutto il mondo si segnala l'aumento della prevalenza dei disturbi neuropsichiatrici nell'infanzia e l'uso crescente di terapie farmacologiche. Sentiamo sempre più spesso parlare di iperattività o di Adhd - disturbo caratterizzato da grave incapacità di prestare attenzione, vivacità estrema e impulsività, che colpirebbe, secondo dati epidemiologici, fino al 5% della popolazione scolare. Non si tratta di bambini "maleducati".

Come sempre avviene con i fenomeni sociali, nella cultura paranoica della cospirazione in cui conviviamo affollati e irritabili, si punta un dito contro i presunti responsabili della situazione: nerupsichiatri accusati di essere asserviti all'industria, di computer e internet, e gli immancabili Stati Uniti D'America, spinti secondo questo punto di vista dalla grande industria della farmacologia dell'angoscia, accusata della "creazione" di malati immaginari per poter vedere la "felicità chimica".

Ma è pur vero che la malattia psichiatrica esiste, indipendentemente dalle (ipotetiche) cause e dalle (ipotetiche) cure in ogni stagione della vita e le semplificazione ideologiche rischiano di allontanarci da una soluzione equilibrata.

Anche Dostoevsj ci racconta che i demoni esistono ma che il modo di comprenderli può essere diversissimo. Forse la psichiatria non è ancora una scienza e, forse, per l'oggetto stesso del suo studio, non lo sarà mai. E' possibile invece che la psichiatria sia un'opinione. Essendo il suo dominio l'agire umano è logico che sia terreno ideale per le opinioni. Chaslin ci avvertiva che la psichiatria è una lingua malfatta  ma è dalla imprecisione delle idee che deriva (tuttora) l'imprecisione dei termini. E viceversa. In effetti le astrazioni di curi ci serviamo per descrivere la realtà non sono la realtà. Ma la psichiatria è anche uno dei pochi settori della medicina dove due esperti possono avere prima impostazioni teoriche antitetiche, per poi aggiungere a conclusioni agli antipodi (e quindi esclusive) paradossalmente rimanendo entrambi "esperti". E qui torniamo alle guerre di religione. In ambito pedo-psichiatrico la faccenda si complica, perchè i più piccoli posseggono un repertorio comportamentale osservabile limitato e lo stesso comportamento può avere più motivazioni. Il pragmatismo americano ha creato il Dsm (Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders). Il manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali, una summa psichiatrica di categorie diagnostiche redatto e adottatato da gruppi di lavoro internazionali. Non è un moderno malleus maleficarum, nè tantomeno un trattato di psichiatria. Alla sua base vi è un limite implicito della vita mentale: se, cioè, pensiamo e ordiniamo la realtà per categorie (un bisogno atavico), queste si manifestano in modo dimensionale, lungo uno spettro di continuità, a esempio dal molto al poco. Categoria è "l'Essere Umano" ; dimensione è "Essere umani". Si può essere umani in molti modi, sani, malati, alti, bassi e così via. Ed è proprio lo spettro dimensionale, che si aggira per l'Italia e agita gli animi. Il concetto di spettro applicato alla neuropsichiatria si traduce in sintomi che, sommati tra loro, compongono la diagnosi (la categoria) e si manifestano su una scala di gravità. La variabilità della gravità può porre quindi in dubbio il concetto stesso di malattia. Il concetto dello spettro è ancora più evidente nell'autismo, in cui due persone con quadri clinici estremamente differenti -uno apparentemente impermeabile al mondo e muto, e l'altro eccentrico, socialmente isolato e ossessionato dalla necessità di memorizzare liste di numeri sganciati da una qualsiasi apparente utilità -possono essere alla categoria dell'autismo. Lo stesso Adhd è composto da fenomeni osservabili complessi (impulsività, attività motoria, capacità di prestare attenzione) con molteplici significati e manifestazioni anche in base all'età in cui si evidenziano. Il corollario ovvio della clinicizzazione è l'intervento. Abbiamo una diagnosi. E una cura (o più cure). Abbiamo anche l'esecrabile Ritalin, demonizzato forse per la sua impressionante rapidità di azione, e in grado di trasformare "a tempo" lo stato clinico del bambino. Proprio questo. Il suo effetto è però "a tempo" circoscritto e aldi là degli schieramenti ne rappresenta il limite farmacologico fondamentale. Pur facendo parte da decenni dell'armamento terapeutico, come tutti i farmaci il Ritalin non è privo di effetti collaterali. Esattamente come le terapie psicologiche, soprattutto se mal condotte. Si finisce per passare da una fraudolenta "psicopatologia" della quotidianità ad una psicofarmacologia dell'uomo comune. Entrambe le posizioni rischiano purtroppo di rimanere riduttive e ghettizzanti qualora non si riesca ad ampliare lo spetto dell'intervento al di fuori dell'ambiot strettamente clinico.

E mentre i fondamentalisti dibattono (e si dibattono) mentre nascono nuovi osservatori per l'infanzia lamentando la perdita di valori e delle stagioni di mezzo, un gruppo di bambini sotto la guida di esperi maestri si affrontano e si sfidano. O meglio affrontano e sfidano se stessi. Combattono la loro difficoltà ad apprendere le regole sociali, pugnano con la loro irrequietezza e provano a conquistare uno spazio vitale in un mondo pre-occupato per loro. Per superare le aspre polemiche e andare al di là delle categorie evitando che l'infanzia diventi una condizione patologica, da anni esiste in Italia un approccio "complementare" ali interventi tradizionali per l'iperattività. Le terapie complementari includono alcuni approcci validati e altri aneddotici, il cui scopo è arricchire l'intervento tradizionale. Nella realtà, tuttavia, la terapia complementare (se ben fatta) può rappresentare l'unico elemento terapeutico. Per fare un esmepio, tra i pochi approcci validati da verifiche rigorose, nell'ambito specifico dell'iperattività è l'uso dell'olio di pesce, una miscela di acidi grassi polinsaturi, fondamentali per il normale sviluppo e funzionamento del tessuto neurale. Un balsamo ittico con cui ungere dall'inteno, una mente disattenta e un corpo scatenato, dimostratosi efficace nel ridurre i sintomi clinici. La terapia complementare di cui sopra, invece, usa l'olio di gomito, un lubrificante naturale del lavoro che riduce l'attrito tra il dire il fare. Un crisma terrestre che deriva da un esempio: dall'esposizione a figure e comportament coerenti, dall'imitazione di modelli che diventano miti personali, ideali introiettati, madri, padri, i nostri maestri. Maestri la cui gestualità, prima delle parole, ci trasforma lentamente nel maestro di noi stesso, consapevoli che l'esperienza personale è una necessità assoluta. Ma come condurre il bambino con disagio a questo tipo di esperienza.? Da anni il centro studi Karate Yo Sho Kan di Roma e la Federaizone itlaian arti marziali utilizzano il karatè come "intervento" nell'ambito di problematiche dell'età evolutiva che interessano la sfera cognitivo-sociale. L'intervento avviene nel dojo, termine che indica il luogo di studio delle discipline marziali giapponesi dove il "do" è una via da seguire per il raggiungimento dell'equilibrio interiore attraverso la pratica. La via del karate è il karatè -do, come per l'aiki-do, la via dell'armonia, il ju-dò la via della cedevolezza, il ken-do, la via della spada. Il dojo è il luogo in cui si persegue l'equilibrio anche attraverso l'esecuzione di movimenti curando con meticolosità il dettaglio gestuale Il progetto "dal dojo alla famiglia alla società" si fonda sulle similitudini tra il karate e il percorso e il percorso evolutivo che porta allo sviluppo di competenze adatte alla vita di relazione. Di fatto il karate, insegnato tradizionalmente e praticato con costanza e metodo, influisce sulla plasticità del sistemna nervoso: un fenomeno fondamentale per l'apprendimento che indica la capacità del cervello di riorganizzarsi, dopo un danno o di organizzarsi in seguito a esperienze sviluppando nuove connessioni neurali. A livello comportamentale i fenomeni plastici si traducono in cambiamenti permanenti. Uno studio pilota pubblicato un anno fa sull'Internazional Journal of Offender therapy and comparative Criminology ha dimostrato che il karate riduce tratti comportamentali devianti. la pratica tradizionale del karate ha come scopo specifico la coltivazione della mente. Favorisce in modo sistematico e -forse unico, se paragonato ad altri sport- la coordinazione mentale e lo sviluppo di capacità esecutive di automonitoraggio. Ciò avviene dal primo giorno di pratica tramite lo stimolo specifico delle strutture cerebrali che sottendono la vita della relazione, senza dover per forza raggiungere vette di performance sportiva. L'acquisizione della consapevolezza del proprio corpo aiuta a spostare l'attenzione dal pensiero all'azione. L'attenzione del praticante è stimolata dal primissimo momento in cui varca la solgi adel dojo, dove l'ambiente semplice, il punto di riferimento unico del sensei (il maestro), l'uguaglianza sociale imposta dall'unifomità dell'abbigliamento e l'imitazione sono gli elementi fondamentali alla base del cambiamento. L'allenamento davanti ad uno specchio è ulteriore guida per l'esecuzione del gesto e , simbolicamente costringe a guardarsi con semplicità e immediatezza shiontoista. Il linguaggio è minimizzato e il coinvolgimento del praticante è tottentuo tramite gestualità e intonazione vocale. Tutto ciò. insieme all'uso della lingua giapponese per dare i comandi, svincola il praticante da un ingmbrante attaccamento al linguaggio parlato, favorendo in modo particolare nei piccoli- in cui la comunicazione non verbale è istintivamente privilegiata- una evoluzione naturale verso la calma interiore grazie allo spostamento dell'attenzione, analogamente ad altre pratiche meditative, sul movimento e non sul pensiero. Il karate evolve quindi in una ottica dialettica secondo un rapporto bilaterale mente-corpo, in cui, come Vittgenstein, si prende atto del fatto che il pesniero è ormai ficcato e non si può più usare. Senza affidarsi a culti misterici o ad approcci teoritici, attraverso l'allenamento del corpo si allenta la mente, e il corpoi stesso diventa tramite per la crescita morale e spirituale. Non si tratta quindi di lezioni spirituali per giovani samurai, nè esercizi devozionali, ma lezioni di rieducazione al silenzio e alla lentezza da cui emergerà l'interiorità. E' interessante che per Anassogora l'uomo è il più intelligente degli animali perchè possiede una mano. Il karate è questo: una mano l'arte della mano vuota. Una mano che non vuole trattenere ma insegna a guardare, senza occhi e senza interpretazioni, le cose come sono. Non in modo atarassico, stoicamente imperturbabile, ma accettando l'inevitabile e accogliendo le emozioni conseguenti a ciò che vediamo, senza tuttavia smettere di guardare al di là del mondo "reale" circostante. L'osservazione dei piccoli praticanti durante l'allenamento permette allo stesso adulto di inquadrare , saggiamente, nella giusta prospettiva il bambino. Questo aiuta a evitare l'errore comune di una visione talmente ravvicinata da divenire distorta o frammentaria. Un cambio di prospettiva non solo simbolico, in un'epoca in cui i filgi arrivano ad un'età in cui si vede fisiologicamente sempre meno da vicino, e si rischia di essere psicologicamente presbiti prima ancora di diventare genitori. Un distacco difficicile con molte cause, ma la cui assenza fa sì che i figli e forse i bambini in generale siano guardati talmente da vicino, che la loro immagine diviene distorta o frammentata. E' interessante che la saggezza attribuita all'età, si associ alla presbiopìa, il calo fisiologico della capacità di vedere da vicino le cose. Simbolicamente questo ci dovrebbe allertare in un epoca in cui i figli arrivano ad un'età in cui l'invecchiamento fisiologico è già avviato, e rischiamo di essere psicologicamente presbiti prima di diventare genitori. Nel dojo si ricerca quindi il normale nel patologico e non viceversa. Con Rodari che ci mette in guardia dall'iperinterpretazione dei nostri figli e con il Valentino pascoliano che ci rammenta che il bambino non sa ch'oltre il beccare, il cantare, l'amare, ci sia qualch'altra felicità, si guidano i bambini verso la scoperta che la mente può diventare più forte del cervello.

 

 

 

 

 

 

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