Articolo tratto da  "Fuoriluogo" anno 9 numero 9, inserto de "Il Manifesto" del 30/09/2007

Il dibattito sulla riduzione dei danni del penale in vista della conferenza di Milano

UN ALTRO MODELLO DI CONVIVENZA CONTRO LA SOCIETA' DELLA PAURA

Livio Pepino

Sono passati oltre dieci anni da quando la "riduzione del danno" è entrata nel lessico e -seppur assai meno- nelle prassi delle politiche in tema di stupefacenti. Sin dall'inizio una cosa era chiara. L'harm reduction non doveva (non poteva) essere solo la somma di alcuni interventi- in primis la distribuzione di profilattici e lo scambio di siringhe usate con siringhe pulite- tesi a rendere meno pericoloso l'uso di sostanze. Essa - lo si disse esplicitamente - doveva essere il volano di nuove e diverse politiche nel settore degli stupefacenti (e non solo).

Tradotto in formule: la pratica della riduzione del danno doveva comportare una contrazione della penalità in favore del Welfare e aprire la strada non già ad un diritto penale migliore ma a qualcosa di meglio del diritto penale come strumento di controllo e di governo del disagio e della devianza. Non è stato così. E -cosa ancor più grave- non lo è stato pur a fronte del conclamato fallimento delle politiche proibizioniste e, più in generale delle politiche neorepressive, che hanno fatto crescere a dismisura gli ingressi in carcere di tossicodipendenti senza scalfire la circolazione e l'uso delle droghe (diventate beni reperibili in qualunque città e in qualunque ora del giorno e della notte sol ché si abbiano conoscenze e rapporti giusti). Il paradosso, peraltro, è solo apparente. Gli interventi nel sociale sono, infatti, come le terapie mediche: al loro insuccesso si risponde spesso inasprendone i tratti anzichè modificare il segno (e dunque, nel nostro caso, aumentando, potenzialmente all'infinito, il livello di repressione, la penalità, il carcere).

La questione è, dunque, chiara e stringente. Perchè, di fronte, all'insuccesso del modello di intervento fondato sul controllo finale dell'abuso di sostanze (e, più in generale, del disagio e della devianza) si è scelta la strada dell'escalation repressiva e non quella di politiche pragmatiche e diversificate all'insegna - appunto- della riduzione del danno?

La ragione fondamentale sta nell'affermarsi, a livello, culturale e politico, di una vera e propria nuova filosofia morale sulle regole della convivenza e sul meritevole di inclusione e di esclusione. La novità più dirompente degli ultimi anni è, infatti, il diffondersi di un pensiero unico (elaborato soprattutto negli ambienti Stati Uniti) che ha ridisegnato- ovunque- i sistemi istituzionali, i rapporti sociali, il concetto stesso di cittadinanza.  Il suo postulato è che la garanzia dei diritti e della sicurezza degli inclusi passa necessariamente attraverso l'espulsione da quei diritti degli esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali (tossicodipendenti in primis) considerati i nuovi barbari da cui la società deve difendersi con ogni mezzo. In questa visione la sicurezza, la prosperità, la felicità si identificano con un ordine prestabilito e immodificabile a cui corrisponde la necessità di respingere al di fuori, in qualche "luogo esterno", il disordine. Nascono da qui le moderne politiche sicuritarie, il revival della contenzione, l'opzione della "tolleranza zero" (vera antitesi, anche concettuale, della "riduzione del danno"). Esiste un'alternativa a questa spirale perversa? Esiste un altro modello, un altro sistema di governo della devianza e dei conflitti? Esiste."Ma -se è esatto quanto sin qui si è detto - non è questione di tecnica giuridica, nè di politica del diritto e neppure di politica criminale. E', piuttosto, una questione di politica tout court. Lo snodo fondamentale è quello dell'inclusione. Le attuali politiche criminali e penali sono insostituibili per la società dei due terzi. Per cambiarle occorre "liberarsi dalla loro necessità" immaginando e realizzando un diverso modello di convivenza. Nel nostro paese, almeno a sinistra, "per lungo tempo - come ha scritto Massimo Pavarini - i sentimenti collettivi di insicurezza hanno avuto modo di esprimersi come domanda politica di cambiamento e di più intensa partecipazione democratica". Occorre riprendere quella strada e abbandonare il mito sicuritario oggi comune a destra e sinistra ( produttivo esso stesso di ansia e di paura ) . Il senso di insicurezza non è una variabile indipendente, ma il frutto di precise politiche economiche, sociali, culturali. Il suo ruolo è la sua stessa strada esistenza dono destinati a cambiare con il mutare di queste politiche. la società inclusiva non è un (impossibile) paradiso terrestre ma è cosa diversa dalla società della paura. Sta nella capacità di investire su questi temi lo specifico della politica (come arte di organizzazione della società e della convivenza). E l'antidoto contro ogni illusione repressiva. Inutile aggiungere che è proprio questo che manca, nel nostro Paese: i fondamenti dell'attuale ordine sono diventati dogmi indiscussi e indiscutibili e così il diritto e le sue politiche si sono ridotti progressivamente a tecnica giuridica e la questione del come punire sembra aver soppiantato quella del se e del chi punire.

Per invertire la tendenza, la prospettiva della riduzione resta un punto di partenza solido. Essa può essere il cuore di una strategia opposta a quella dominante: una strategia sul diritto mite, sulla justice douce, sul diritto che accompagna, sulla legalità come processo o percorso e non come discrimine. Costruire una politica siffatta significa per esempio, nel settore degli stupefacenti e delle dipendenze, spostare risorse, fantasia, operaizoni d'immagine, dal piano della proibizione a quello della tutela della salute. L'interrogativo resta quello di sempre: serve di più proibire o educare e incentivare comportamenti alternativi? Credo che la risposta sia agevole. Ma forse non abbiamo saputo argomentarla a sufficienza, non abbiamo saputo spiegare che la ricerca di altre strade di intervento non è un cedimento alla rassegnazione ma il tentativo di costruire risposte fondate sulla realtà e non su pregiudizi ideologici.  Forse, ancora, non abbiamo saputo costruire le alleanze giuste (nella informazione, nella politica, nelle istituzioni) per rendere vincente questa prospettiva. Dobbiamo, dunque, ripensare ai nostri errori, ma riprovarci è necessario. I tempi non sono migliori ma non c'è alternativa.

*(le evidenziazioni sono del webmaster)

ARTICOLO DI LIVIO PEPINO DEL 2002 : L'ESIGIBILITA' DEI DIRITTI SOCIALI

 

 

 

 

 

 

 

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