Riprendiamo e diffondiamo l’articolo di Katia Fitermann su “Famiglia Cristiana” perché riteniamo che certe letture siano necessarie alla comprensione piena delle varie sfaccettature della realtà odierna e vadano diffuse su varie piattaforme a disposizione di tutti.
“Abbassa lo sguardo per nascondermi le lacrime, Mariam (il nome è di fantasia per proteggere la sua identità) quando le chiedo la sua impressione sulla vicenda dei profughi salvati dalla nave Diociotti, della Guardia Costiera Italiana, da pochi giorni sbarcati a Catania dopo un calvario durato 11 giorni.
La giovane scuote la testa come se cercasse le parole, quelle che spesso muoiono in gola a chi conosce il dolore nelle sue più terribili espressioni e non sa come si possa difendere “a parole” la dignità della vita umana. Sa che in quella nave c’erano, tra i 177 profughi, 28 minori e 12 ragazze, tutti sfuggiti all’inferno dei campi di concentramento libici. Lei, nei suoi 20 anni da poco compiuti, sa tutto e proprio per questo non riesce ad esprimersi. L’orrore e la tristezza li dovrò cogliere nei suoi occhi lucidi, profondi, quanto la sofferenza di queste persone.
“Non hai idea di quanto ho sofferto in Libia!”, racconta con la voce spezzata. Loro, loro che decidono su di noi non sanno niente davvero su cosa accade lì, ancora di più alle ragazze e ai bambini.”
Non si può mai capire la sofferenza delle persone senza averla vissuta sulla propria pelle.
“Sono arrivata in Libia che avevo soltanto 12 anni. In Etiopia ero una bambina brava, aiutavo mia madre nelle facendo domestiche e mi prendevo cura anche dei miei fratellini. Ero la figlia maggiore dei miei genitori e quando la situazione in Etiopia diventò davvero insopportabile, mio padre e mia madre hanno accettato la proposta di farmi portare via da una persona conosciuta in un altro luogo, per lavorare a casa di una famiglia come domestica. In cambio avrebbero aiutato me e i miei. Ma in casa di quelle persone non sono mai arrivata. Sono stata rapita e portata in Libia e venduta come schiava. E così, per otto terribili anni, ho conosciuto tutto il male di questo mondo. Ho conosciuto l’inferno”, racconta.
La ragazza mi racconta cose inimmaginabili, come la storia del bimbo nato in prigione, mentre i miliziani libici stavano uccidendo sua madre perché si lamentava delle doglie del parto.
Quel piccolo che stava venendo al mondo nel momento stesso in cui la ragazza stava per morire sotto i colpi dei loro carnefici e l’ordine privo di qualsiasi umanità, imposto alle altre recluse, di “sbarazzarsi dei corpi di entrambi” anche se il piccolo era già quasi nato e infine “di pulire il sangue sul pavimento”.
“Segnavo la lista dei nomi dei morti, tra uomini, donne, bambini. Era così che passavo il tempo dentro la prigione. Siccome spesso non riuscivo nemmeno a sapere il loro nome, allora nella mia mente li davo un nome io. La lista dei morti non finiva mai…”
Le violenze sulle donne, nei campi di concentramento libici, sono difficili di raccontare, come mi spiega un’altra giovane, che chiamerò Kibra, proveniente dall’Eritrea, mentre raccolgo la sua storia:
“Avevo una gamba rotta, avevo la febbre a causa della frattura e delle ferite, ma mi violentavano lo stesso. Anche nelle condizioni precarie in cui mi trovavo, ferita e sporca, dopo mesi senza potermi lavare. Ci stupravano davanti ai nostri figli piccoli e loro non potevano neanche piangere l’orrore di cui erano vittime. Ci terrorrizzavano sempre e ci dicevano che se non riuscissimo a far smettere di piangere i bambini loro li avrebbero ammazzati.”
In tutti i racconti delle profughe, in particolare quelle che sono passate dalla Libia, la violenza sessuale su donne e bambini è la solita costante. Mai un briciolo di pietà. Mai un ricordo di umana compassione.
“I carcerieri ci picchiavano con una tale brutalità, a volte fino a quando non avevano più la forza di farlo. Dentro la prigione non potevamo parlare, a volte neanche muovere le labbra senza pronunciare parole. Di giorno ci picchiavano e di notte venivano a violentarci. Non eravamo più persone. Non eravamo niente ai loro occhi. Ci davano scariche elettriche dopo averci violentato, ci bruciavano lasciandoci scottture tremende, bruciavano anche i bambini”
I vissuti traumatici di queste ragazze, la maggior parte giovanissime, scapate alla guerra in Sudan, Somalia, Eritrea, Etiopia, sono difficili da tradurre in parole. Come è davvero difficile difendere la dignità di una persona con le parole, come mi ricordava appunto Mariam.
Gli orrori della Libia si moltiplicano in maniera esponenziale quando la vittima è una ragazza oppure un bambino.
Mi racconta Enana Damlash, una rifugiata etiope in Italia, che la sera prima che la imbarcassero su un gommone nalandato a Tripoli, (era stata incarcerata in Libia con la figlia neonata per tre lunghi anni), i libici erano entrati nel magazzino dove i prigionieri erano stati stipati come animali e avevano deciso di portare via con loro una bambina di sei anni, strappandola alla madre che implorava pietà supplicando loro che non gliela portassero via. Per tutta la notte la piccola era stata violentata dai carcerieri e quando è stata restituita alla madre era ormai irriconoscibile: “Aveva gli occhi bianchi, senza colore, era priva di coscienza, piena di lividi, ferita e sanguinante”. Racconta allora la giovane che lei e le altre prigioniere avevano ripulito il corpo della piccola con i propri vestiti e, strappandosi un pezzo di stoffa ciascuna, l’avevano rivestita. “La bambina sembrava morta, ma respirava piano. Sua madre era ormai completamente impazzita e dalla disperazione si graffiava il proprio volto e il corpo, piangeva e si strappava i capelli. Provavamo tanta pietà per lei, che era riuscita quasi fino alla fine di quell’inferno a proteggere la bimba dalle violenze sessuali in Libia, subendole lei al suo posto. Durante il viaggio la madre della piccola si è lasciata cadere in mare ed è scomparsa tra le onde. La bambina l’avevamo adagiata sul gommone. Abbiamo custodito noi il suo corpo esanime per tutto il viaggio e quando siamo stati salvati in mare da una nave italiana, dopo tre giorni alla deriva, ci hanno portato a Lampedusa e lei è stata soccorsa per prima. Ci hanno soltanto detto che era ancora viva e ho pianto di gioia. Non so dove hanno portata la bimba, ma sono sicura che qualcuno si sarà preso cura di lei. “
Sentir dire in questi giorni che i profughi dovrebbero essere riportati in Libia, che queste persone non devono toccare il suolo italiano rievocano in me le parole Hannah Arendt su Eichmann:
“Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male”.
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