a cura di Fabio Ruta, educatore professionale*
“In questo scritto non mi soffermerò ad analizzare nel dettaglio il complesso quadro normativo di riferimento dell’Educatore Professionale – nella sua evoluzione storica, sino alle recenti “Legge Iori” (inizialmente chiamata così) e Legge Lorenzin – limitandomi a registrare come la situazione attuale non risolva una pregressa “balcanizzazione” della categoria professionale.
Anzi le novità normative intervenute a fine legislatura contribuiscono a cristallizzarla e renderla più profonda, ancor più divisiva.
Permane la presenza del doppio profilo e si accentua la divaricazione tra ambiti e settori professionali – con la esclusione (almeno per ora) dei Laureati di Scienze della Educazione e degli Educatori Professionali formati nei corsi regionali dopo la fatidica data del Marzo 1999 – dall’albo dell’educatore professionale istituito all’interno degli “Ordini dei Tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione”.
Ci si potrebbe largamente interrogare sulla attualità ed utilità degli ordini professionali: strumento utile per la salvaguardia di una professione o strutture passibili di burocratizzazione e difese corporative?
Personalmente ho condiviso le battaglie storiche del leader radicale Marco Pannella sul superamento degli ordini professionali.
Ritengo che vi siano altri strumenti, di diritto del lavoro, contrattuali, formativi, per difendere e valorizzare una professione.
Resta il fatto che la Legge Lorenzin istituisce l’albo, inserendolo in ambito sanitario.
Questa scelta – a mio avviso sbagliata – rischia di imprimere una forte accezione “paramedica” alla figura dell’educatore professionale.
Potenzialmente “amputandola” di un suo tratto specifico e caratterizzante che la rende una utile alterità all’interno del settore sanitario e sociosanitario.
Quella di incorporare un sapere olistico e connettivo (fortemente umanistico e filosofico), all’interno di comparti decisamente connotati come medico specialistici.
Improntati indubitabilmente e necessariamente ad un sapere “classificatorio”. Legato ad una scienza “forte”, euristica, dallo statuto empirico “duro”, come quello proprio della medicina.
Un valore aggiunto che rischia di “minimizzarsi” e divenire ancella di una epistemologia prevalente che ha importantissime radici: ma distanti da quelle proprie delle scienze pedagogiche e della educazione.
Il fatto stesso che – svanita la ipotesi della interfacoltà – la formazione degli Educatori Professionali si sia accasata entro la cornice delle Facoltà di Medicina appare come una anomalia italiana.
Nel corso dei decenni una terminologia medica si è fatta poderosamente strada nel lessico dell’Educatore.
Per naturale contiguità di ambiti sicuramente: ma non di rado come esito del “maldestro” e forse inconsapevole tentativo di giungere ad un più forte riconoscimento di statuto, clonando idiomi tipici delle scienze sanitarie.
Così dalla osservazione e valutazione educativa si è passati con una certa “nonchalance” alle “diagnosi”.
Spesso accuratissimi corsi propongono modelli di progettazione educativa con una architettura tipicamente “tassonomica”, basata sulla misurazione di diversi parametri.
E si finisce per vedere descritti utenti in carne ed ossa con grafici a torta e diagrammi che misurano le loro performance, i loro ambienti di relazione e di vita, le interazioni e gli stati emotivi. Cose che spesso fanno fare bella figura.
Ma quell’utente così descritto, finisce più per somigliare al modello utilizzato come strumento che alla rappresentazione di sé stesso.
Poiché tecniche che sono buone per misurare la concentrazione di determinati parametri all’interno di un campione ematico, non lo sono altrettanto per operare una valutazione educativa di un utente psichiatrico, di una persona disabile, di un soggetto portatore di una dipendenza. Occorre però prendere atto della istituzione – nonostante la secca bocciatura della Authority Antitrust – dell’albo, che oggettivamente cambia il quadro con il quale gli educatori, i servizi, gli utenti e le loro famiglie, dovranno giocoforza confrontarsi.
Nella realtà e materialità del lavoro nei servizi convivono da tempo educatori provenienti da diversi canali formativi: corsi regionali, corsi di laurea in Scienze della Educazione, corsi di terapista della riabilitazione psichiatrica, corsi di laurea in Educatore Professionale interni alle facoltà di Medicina (numericamente di molto inferiori a quelli provenienti dai corsi in SDE e maggiormente concentrati in certe aree del territorio nazionale).
Vi sono intere equìpe di servizi a compartecipazione sanitaria (come le residenze ed i centri diurni per disabili) composte da laureati in SDE ed educatori professionali provenienti da corsi regionali successivi al 1999.
Molti enti ancora non sanno come adeguarsi alle prescrizioni normative che vanno attuandosi e certi uffici personali sono nel caos.
Successivamente – ed in reazione – a queste “innovazioni” si è materializzato un fatto nuovo: il proliferare di una partecipazione dal basso della categoria professionale.
Con gruppi e coordinamenti spontanei, focus e pagine sui social network.
Appare certamente come una serie di manifestazioni legate alla “emergenza”. Ovvero al bisogno contingente. All’obiettivo immediato di trovare la via per il riconoscimento dei diversi titoli.
La possibilità per tutti gli educatori di “ribellarsi” alla settorializzazione e accedere a tutti gli ambiti occupazionali pertinenti alla figura dell’educatore professionale.
Ma c’è dell’altro. Qualcosa di a lungo sopito che si risveglia. E pone con forza inedita l’accento su temi troppo spesso accantonati. Prefigurando nuove forme di partecipazione democratica e protagonismo politico degli operatori della categoria.
Che si attivano a partire dalla difesa delle proprie professionalità, dalla rivendicazione dei diritti contrattuali e del proprio livello formativo.
Tutto ciò rende evanescente – sul piano della percezione di molti operatori del proprio ruolo – la distinzione di legge dei profili di “educatore socio-sanitario” ed “educatore socio-pedagogico”.
Fa apparire ai più sterile la contrapposizione e la difesa corporativa delle diverse associazioni professionali, tese a dividersi nella difesa prevalente di questo o quel profilo. Di questo o quel canale formativo o facoltà.
Perché nella realtà materiale quegli “educatori di professione” condividono la stessa fatica, lo stesso “pane”, si scambiano saperi, affrontano le medesime asperità ed emergenze.
Cose molto concrete, spesso connotate dalla preoccupazione per la carenza di risorse dei servizi, per la intermittenza degli incarichi di lavoro, per una mole di complessità che in certi casi può apparire soverchiante. La attività educativa è spesso volta a dilatare gli spazi di accoglienza.
Tesa a creare nuove forme di convivenza, a promuovere il rispetto delle differenze e la autoderminazione dei soggetti: proteggendo le fragilità e le vulnerabilità.
Un compito assai arduo in un clima storico-sociale purtroppo spesso segnato da populismi, nazionalismi retrivi e xenofobia, omofobia, misoginia, bullismo.
Una azione che è volta a bonificare fratture e a creare scenari di inclusione.
Attraverso la mediazione, la maieutica gestione dei conflitti.
Sarebbe aberrante se questo “cuore attitudinale” non avesse anche una forma auto-riflessiva: se non si esercitasse ed applicasse anche all’interno della categoria dell’educatore di professione.
Anzi proprio a partire da essa, a partire dalla suggestione ed esortazione gandhiana sul “diventare il cambiamento” che si vuole vedere avvenire nel mondo. Mai capitato -in quasi un quarto di secolo di professione – di sentire Educatori dello stesso servizio che si rimproverano di aver fatto un esame di neurologia o filosofia in più o in meno. Che considerino il proprio collega educatore in uno stato di inferiorità o superiorità per aver fatto un percorso formativo di un tipo, piuttosto che dell’altro.
Queste cose non fanno parte del vissuto della parte maggioritaria della categoria, ne sono personalmente convinto.
Dunque è un bene ed è salutare che si uniscano le lotte. E’ auspicabile che una categoria divisa (che non è stata unificata dal contesto formativo-normativo e nemmeno dalla iniziativa delle associazioni professionali) trovi la forza di affratellarsi in reciproca solidarietà a partire da un moto spontaneo, eterogeno, genuino, ma profondamente capace di argomentare le proprie ragioni.
Ed è un bene che lo si faccia senza cedere all’errore dell’autoisolamento.
Confrontandosi lealmente e francamente con tutti, ma proprio tutti: con le associazioni professionali (molto numerose), con le forze sociali e sindacali, con il mondo dei formatori e le facoltà coinvolte, con le associazioni di utenti e famigliari, con gli enti gestori dei servizi, con il mondo cooperativo.
Ciò va fatto incalzando le istituzioni ad ogni livello ad intervenire per dare risposte ai quesiti in essere. Che è bene ricordare hanno una valenza di carattere nazionale e riguardano appunto il mondo dell’Università, il sistema sanitario, gli enti locali, il settore cooperativo.
Quindi è bene rivolgersi alla Conferenza Stato-Regioni, ai ministeri competenti, all’Anci.
Per dare certezze agli operatori che già lavorano da anni all’interno dei servizi e che ora vedono minacciato il riconoscimento della loro abilitazione professionale.
Per prefigurare in futuro una formazione (o più formazioni) degli Educatori che abilitino al lavoro in tutti i settori ed in tutti i comparti. Perché è assurdo pensare che l’educatore che opera con utenza psichiatrica sia cosa “diversa” da quello che opera con i minori; è altrettanto assurdo pensare che vi sia un educatore per la sola infanzia ed uno per la età adulta…e via discorrendo. Per quanto riguarda gli Educatori post 1999 la cosa appare molto semplice (e non vale nemmeno la pena di addentrarsi in questioni da azzeccagarbugli e di lana caprina): hanno conseguito un titolo in base a corsi omologhi a quelli frequentati in precedenza dai loro colleghi più anziani. Sarebbe una assurdità che non venisse riconosciuta quindi una piena equipollenza per una burocratica questione di date e timbri.
Verrebbe meno il legittimo affidamento che un cittadino-studente ha nei confronti delle pubbliche istituzioni e della parola data.
Non si può imporre una riqualifica a qualcuno che si è già qualificato, in corsi banditi dalle Regioni, per il medesimo profilo.
Sarebbe una totale assurdità. Il gruppo degli educatori professionali post 1999 è molto attivo ed è riuscito a portare la vicenda alla attenzione mediatica.
Inoltre opera fattivamente per spronare le istituzioni a risolvere il problema, che verrà peraltro affrontato nel Consiglio regionale della Lombardia il giorno 11 Settembre 2018 attraverso la discussione di due mozioni per la Equipollenza del titolo.
In quella giornata, fuori dalla sede istituzionale in Via Fabio Filzi a Milano è programmato un presidio degli educatori professionali post 1999, organizzato con la collaborazione della organizzazione sindacale USB.
Per quanto riguarda i laureati in SDE il problema si poteva risolvere approvando l’emendamento della senatrice Iori che prevedeva la possibilità di lavorare in contesto sociosanitario e nel settore della salute pure per loro, limitatamente alle mansioni educative (cosa che –ca va sans dire – è esattamente ciò che fanno anche gli educatori professionali sfornati dai corsi presso le facoltà di Medicina).
Quell’emendamento è stato inopinatamente bocciato dalla maggioranza parlamentare gialloverde. Ci vorrebbe un lavoro di pressione mediatica, di lobbying, capace di spostare gli equilibri su questo tema.
Tema sul quale si è espressa con autorevolezza la SIPED (Società Italiana di Pedagogia) con una lettera indirizzata ai Ministri ed alle istituzioni competenti, nella quale chiedono – oltre ad altri punti qualificanti – che “ venga ripristinato quanto contenuto nel DDL originario 2443 confluito con modifiche nella L.205, ovvero la possibilità da parte dei laureati L19 di accedere anche alle strutture sanitarie, limitatamente alle attività educative”.
Su questo tema si moltiplicano le iniziative di Studenti in Scienze dell’Educazione, con ripetute petizioni online e la ipotesi di ricorsi al Tar del Lazio e di un esposto alla Commissione UE per discriminazione nei loro confronti.
Quanto alla formazione futura sono in molti a volere un unico canale formativo. Ed è una richiesta che viene anche da buona parte del mondo sindacale.
Può essere una soluzione? Forse. Certamente no se questo dovesse comportare de facto la scomparsa dei corsi di laurea in Scienze della Educazione ed il monopolio della formazione degli educatori in capo alle facoltà di Medicina.
Appare difficilmente praticabile la via della interfacoltà. Allora perché non pensare a corsi in diverse facoltà, ma ugualmente abilitanti al lavoro nei diversi settori? Corsi con una base comune obbligatoria di formazione.
A questo punto non sussisterebbe una divisione binaria tra “adatti” e non “adatti” al lavoro in questo o quel settore.
Non verrebbe ridotta la ricchezza del panorama formativo e la libertà di scelta degli studenti.
Per conto mio, come esiste un educatore formato in Facoltà di medicina ad inclinazione “sanitaria”, potrebbe essercene benissimo uno formato da Scienze della Formazione, uno da Psicologia o Sociologia. Nulla di male. Nulla di storto. Purché vi sia una base curricolare obbligatoria comune (che abiliti all’accesso al lavoro in ogni settore) ed una rimanente quota di cfu “vocazionali”.
Di soluzioni se ne potrebbero trovare, con un po’ di fantasia ed elasticità. L’importante è non calare le determinazioni dall’alto ma confrontarsi con i professionisti del settore, quelli che fanno riferimento ad associazioni di categoria, al pari di quelli che si esprimono in movimenti e coordinamenti spontanei.
In ultimo solo un cenno alla questione della visibilità mediatica della categoria professionale. Spesso l’immagine che passa del settore è purtroppo quella delle degenerazioni e dei veri e propri reati che si consumano in certe strutture. Pochi secondi di riprese ambientali che mostrano vergognosi abusi e situazioni di prevaricazione.
Occorre che nei media e nel mondo della informazione si riesca a togliere dall’anonimato ed a fare filtrare anche quelle migliaia e migliaia di realtà ove si esercitano delle buone pratiche.
Ove si esprime nella “materialità dell’agire” educativo quella professionalità capace di seminare nel quotidiano possibilità di crescita e di qualità della vita, al posto di emarginazione e disagio. Anche a questo potrebbe giovare, liberati dalle emergenze di cui abbiamo discusso, un nuovo protagonismo della categoria degli educatori di professione.”
*Fabio Ruta ha iniziato come educatore in comunità psichiatriche, corso di riqualificazione per educatori professionali in Regione Lombardia (post 1999), laurea in SDE e laurea specialistica in Consulenza Pedagogica e ricerca educativa. Alle spalle ha un quarto di secolo di lavoro come educatore con esperienza con utenza psichiatrica, disabilità, minori, nel settore del privato sociale prima e poi dell’impiego pubblici..
Ho letto con interesse l’articolo, volevo chiedere se è possibile avere o visionare il testo delle due mozioni che saranno discusse al Consiglio Regionale della Lombardia
Chiedere a Fabio Ruta che sta sul gruppo fb
Alberto, nella lista dei miei amici Facebook trovi Paolo Zuffinetti. Mandagli un messaggio di richiesta con la tua mail per farti girare i testi. Buon fine settimana
Ci tengo a specificare alcune cose in relazione ad alcuni commenti apparsi sul web. Nel mio articolo, quando parlo di imporsi di un lessico medico nel linguaggio educativo e di corsi dalla architettura tassonomica, non faccio riferimento ai corsi istituito presso le Facoltà di Medicina. Sia ben chiaro che ho stima dei colleghi laureati in quei corsi e dei loro formatori. La mia idea è proprio quella di unificare la categoria in reciproca solidarietà a prescindere dalla facoltà di provenienza, ottenendo pet tutti la possibilità di accedere ad ogni settore di lavoro ove si preveda la figura dell’educatore. La mia riflessione su quegli aspetti è di taglio storico e la tendenza che descrivo a mio avviso precede decisamente la istituzioni e dei corsi di laurea per Educatori presso le Facoltà di Medicina (che comunque – a torto o ragione _ ritengo siano una anomalia italiana). Questa tendenza alla sanitario nazionale e del lavoro educativo ha radici molto più antiche, difficili da decifrare. Forse nella maggiore fragilità di statuto delle discipline umanistiche di fronte a scienze “esatte” più “corazzate”. Forse nella fine di utopie trasformative della società che in qualche modo sottendevano ad una certa – consapevole o meno – ispirazione del lavoro educativo e sociale nel suo complesso. Al tramonto di queste ispirazioni utopiche potrebbe essere subentrato un vuoto e la necessità di altri approcci? Tutte teorie. Sulle quali è lecito interrogarsi. E che in parte mi ripropongono suggestioni di letture fatte in passato, da testi fondamentali di Basaglia e Foucault.
Alla sanitarizzazione. I correttori automatici giocano brutti scherzi.
Ci sono novità? Ci sono migliaia di educatori socio pedagogici impiegati in sanità privata in Puglia che non potranno iscriversi al relativo albo. Cosa si rischia?