Dal carcere al “manicomio”, l’allarme degli esperti

Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire e verrebbe da pensare che la frase non l’abbia mai letta nessuno vista la situazione carceraria in Italia. La parola “manicomio”, posta tra virgolette nel titolo, vuole essere solo una provocazione volta a scongiurare il rischio di un ritorno a modalità del passato.
Riteniamo importante trattare l’argomento proponendo di seguito un’interessante riflessione di Fabio Ruta*:

“Un articolo del quotidiano “La Repubblica” del 21 Giugno 2019 riporta l’allarme lanciato a Firenze in apertura del Convegno Nazionale della Società Italiana di Psichiatria.
L’allarme riguarderebbe oltre 400 casi di detenuti sani trasferiti ogni anni dalle carceri alle strutture psichiatriche.
Si tratterebbe di persone non soggette a conclamate psicosi ma, ad esempio, a “disturbi antisociali di personalità” che “non dovrebbero comportare alcuna applicazione del vizio di mente ed essere confuso con una malattia”.
L’ articolo – con relazioni provenienti dal mondo psichiatrico – evidenzia il limite di un intervento rivolto ad una fascia di detenuti che vengono ritenuti incompatibili con la vita carceraria.
Questo porta a due considerazioni: La prima è che le sovraffollate carceri italiane (tristemente note per l’elevato tasso di suicidi dei detenuti e anche di personale penitenziario), che spesso hanno visto alzarsi il cartellino rosso da parte di organismi internazionali, sovente abdicano alla finalità rieducativa della pena prevista dal dettato costituzionale.
Questi aspetti drammatici spesso sono stati denunciati da innumerevoli scioperi della fame di Marco Pannella e dei radicali e l’archivio storico di “Radio Radicale” costituisce un patrimonio di informazione vastissimo sulle tematiche carcerarie.
La carcerazione in cella molto spesso non porta ad una conversione esistenziale del reo, bensì allo strutturarsi di “una carriera deviante”: costituendone una tappa simbolica e rituale.
Ciò dovrebbe farci comprendere quanto siano da rafforzare le alternative alla reclusione che dovrebbero rendere la carcerazione in cella una “estrema ratio” e sospingerci verso un sistema penale minimo (ma anche quanto dovrebbe essere rafforzato il numero di Pedagogisti ed Educatori assunti per portare il loro contributo professionale all’interno delle strutture di reclusione).
Mentre oggi l’ottica securitaria e proibizionista imperante ci spinge demagogicamente nella direzione contraria.
La seconda considerazione ed evidenza che traspare è la difficoltà della psichiatria ad operare in termini preventivi nei confronti di ciò che non è rigidamente definibile dai canoni nosografici come patologia.
Una riduzione e restrizione del campo comprensibilmente (e forse anche motivatamente) spesso agita in funzione difensiva di uno “specifico professionale” che – per altri versi – conosce chi si è ritrovato a a lavorare con sospette doppie diagnosi.
In tutto questo ci vedo uno spazio enorme per le professioni educative e lo sguardo pedagogico. Uno spazio che va rafforzato in termini di piante organiche e di progetti e riempito di buone prassi professionali.
Dove l’incrocio tra moderne pratiche educative e pedagogiche ed un mondo psichiatrico orientato alla cura ed all’inclusione, così come un sistema carcerario sensibile alle finalità rieducative, allontanino i fantasmi istituzionali descritti da Michel Foucault e da Franco Basaglia nelle loro opere.  Opere ormai classiche ma sempre di grande interesse.

*Educatore Professionale Pedagogista

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Blogger autodidatta, Educatore Professionale con Laurea Magistrale in Management del Servizio Sociale a Indirizzo Formativo Europeo; Master in Tutela Internazionale dei Diritti Umani. Profilo corrente: Ata nella Scuola Pubblica. Inserito nelle Graduatorie d'Istituto 3a fascia per l'insegnamento di "Filosofia e Scienze Umane"

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