Quello che segue è un articolo scritto nel maggio 2009 e pubblicato su la Repubblica e su alcune testate online. Alla luce di recenti episodi accaduti a Napoli, Lodi, Salerno ecc, credo che tratti un tema ancora attuale e costituisca uno spunto di riflessione per gli operatori del mondo della scuola e dell’educazione.
L’uso dei coltelli si diffonde tra gli adolescenti. Accoltellamenti all’uscita di locali per il divertimento serale, sfide in mezzo alla strada, per un parcheggio, per una ragazza, per colpire uno straniero ecc ecc. Ma oggi i coltelli cominciano a comparire anche nelle scuole come arma di difesa-offesa contro compagni “antipatici” o “ostili”.
E’ quello che è successo nel giro di pochi giorni a Roma, in una scuola media della zona Prenestina, e a Monterotondo, in un istituto professionale. Il movente dichiarato dai “ragazzi-coltelli” è lo stesso: porre fine, attraverso la propria lama, ad una serie di prese in giro e atti umilianti compiuti precedentemente dall’accoltellato nei confronti dell’accoltellatore.
Il sindaco di Roma attribuisce in parte la responsabilità all’influenza diseducativa sui minori di alcune trasmissioni televisive. Ne è nata una polemica artificiosa se la violenza sia il prodotto imitativo della Tv o sia frutto della stessa realtà violenta. Presidi, docenti delle scuole interessate e l’assessore provinciale alla scuola si dicono preoccupati per il malessere profondo esistente tra i ragazzi e per un fenomeno che va arginato anche con interventi di prevenzione e informazione nelle scuole.
Avendo seguito da vicino alcuni “minori a rischio” in una scuola ed avendo osservato come si rapporta il sistema scolastico e dei servizi sociali e sanitari nei confronti di alunni svantaggiati o ritenuti “a rischio devianza”, mi permetto di suggerire, dal mio punto di vista di educatore professionale, una maggiore attenzione di “rete” sui progetti educativi. L’assistenza specialistica e professionale all’interno delle scuole medie e superiori, a favore di minori disabili o a rischio, potrebbe diventare un prezioso supporto per i docenti con classi difficili da gestire e, in generale, per tutta la scuola. Purtroppo accade, invece, che i progetti educativi, presentati dalle scuole agli enti locali per ottenerne i finanziamenti, siano fatti da una o due persone incaricate dal Preside e che questi incaricati, spesso per motivi di tempo, trascurino il metodo della co-progettazione.
Dietro il sostegno ad un ragazzo “difficile” c’è sempre una rete articolata di figure professionali e di enti, come l’assistente sociale e lo psicologo della ASL territoriale, il Tribunale dei Minori, la cooperativa sociale domiciliare, il servizio sociale del comune, la famiglia, l’insegnante ecc ecc. Ma, alla fine dell’iter del progetto presentato e del finanziamento ricevuto da Comune, Provincia o Regione, il lavoro “educativo” viene sostanzialmente affidato ad un operatore sociale di cooperativa convenzionata, assunto a progetto e malpagato, spesso lasciato solo e con poche informazioni durante l’anno scolastico.
A monte c’è, pertanto, una mancata valorizzazione dei progetti educativi. Paradossalmente, alcuni presidi potrebbero ritenerli utili e altri dannosi per il bilancio del proprio istituto. Utili per i finanziamenti degli enti locali, dannosi perché la presenza di ragazzi svantaggiati particolarmente difficili potrebbe comportare un calo generale di iscrizioni.
Ma, a mio parere, uno dei problemi veri da affrontare è il mancato coordinamento tra il sistema scolastico, gli enti locali e i servizi territoriali. Le Università sfornano in continuazione tanti bravi educatori professionali e pedagogisti che potrebbero essere impiegati nelle scuole ad affiancare i docenti nelle classi con alunni svantaggiati. Essi potrebbero contribuire a rendere solido questo avamposto sociale dell’istruzione. Un avamposto che, per fortuna, ancora regge rispetto all’avanzare della desertificazione morale delle metropoli.
Il punto, però, è che si innalzano sempre di più i muri tra chi ha bisogno di aiuto e chi è preposto a darlo. Gli alunni difficili, i disabili, i cosiddetti “casi sociali” sono sempre più considerati un problema da smaltire ed è per questo motivo che vengono affidati ad assistenti arruolati a caso che potremmo anche chiamare “netturbini del malessere”. Operatori che non sempre hanno il titolo professionale adeguato per svolgere quella funzione educativa e che percepiscono paghe orarie intorno a 7 euro, senza altri diritti previdenziali.
Su questi operatori male pagati e sui ragazzi assistiti ruota un giro di danaro rispettabile che però, molto spesso, non riesce ad arrivare, per i motivi sopra detti, agli obiettivi educativi dichiarati nel progetto. Se a tutto questo si mettesse mano, ognuno per le proprie rispettive competenze: agli enti locali finanziatori il compito di verificare e controllare i progetti e i rapporti di lavoro, alle Asl e ai servizi sociali il compito di partecipare attivamente ai gruppi di lavoro scolastici dedicati ai progetti individualizzati, alle cooperative e associazioni il compito di attingere a professionalità vere e di seguirle e retribuirle con dignità e secondo le leggi.
Alle scuole il compito di considerare gli alunni come il proprio tesoro e non come mezzo numerico per far quadrare i conti. E se i presidi fossero un pò più intraprendenti e coraggiosi e potessero, qualche volta, evitare le intermediazioni di prestazioni d’opera fornite dalle cooperative e costruire rapporti diretti e leali, con i singoli educatori professionali, operatori socio-sanitari e psicologi esterni. Se questa attenzione collettiva crescesse in maniera capillare forse si potrebbe affrontare meglio anche l’emergenza dei “ragazzi-coltelli”.
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